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American Beauty - intervista a Kevin Plank

Tutti i segreti di Under Armour, dall'invenzione della maglia termica alla firma di Steph Curry

American Beauty - intervista a Kevin Plank Tutti i segreti di Under Armour, dall'invenzione della maglia termica alla firma di Steph Curry

Kevin Plank, il fondatore di Under Armour, starebbe benissimo su un palco di un TED Talk. Potrebbe parlare per ore e convincerti che il suo è il marchio migliore di tutti - nulla di più americano, no? Era esattamente questo l'obiettivo della nostra intervista: ottenere una sorta di Plank-splaining per capire al meglio le intenzioni future del brand. Ci aspettavamo che Kevin Plank ci spiegasse, come in un comizio politico, con la stessa retorica, carica emotiva, consapevolezza di sé ma soprattutto la voglia di convincerci, la sua visione. D’altronde, Under Armour è un mix di idee nato da un sogno americano, da un sentimento di rivincita, da un’intuizione geniale destinata a cambiare la storia dello sport - o meglio, quella dell’abbigliamento sportivo. 

E ripercorrendo le tappe fondamentali dell’ascesa di Under Armour nel complesso panorama sportivo, ci rendiamo conto che forse avevamo sottovalutato il suo impatto sull’industria dello sport. Alcuni aspetti, invece, li avevamo semplicemente rimossi. Altri dettagli che Plank aggiunge fanno quasi sorridere, ma completano alla perfezione la più americana delle storie: il più americano dei sogni, portato avanti da un imprenditore con un’idea fissa e la determinazione di cambiare le regole del gioco. Kevin Plank incarna tutti i cliché del business man di successo.

Lo incontriamo a Milano, nel giorno di apertura della Design Week 2025: si presenta con un gilet e l’aria da finance bro.

Prima di diventare il fondatore di Under Armour, chi era Kevin Plank?

Sono sempre stato un imprenditore. Se da piccolo spalavo la neve e tagliavo le siepi per guadagnare quei pochi soldi di cui avevo bisogno, appena arrivato al college ho iniziato a vendere merchandising unofficial delle band fuori dalle venue dei concerti. All’università, il regolamento diceva che, in quanto student-athlete, non potevi avere un lavoro tradizionale — cioè non potevi essere assunto da qualcuno — ma potevi avviare un’attività tutta tua. Così è nato il mio primo vero business: Cupid’s Valentine, un servizio di consegna di rose. I miei clienti erano ovviamente gli studenti del campus. La tariffa per la consegna era di 5 dollari, ma con 25 dollari in totale si portavano a casa un mazzo di rose che in un normale fiorista ne sarebbe costato 75. Ne ho vendute a migliaia, ogni anno, fino all’ultimo anno di università. Poi quei soldi mi sono serviti per fondare Under Armour. 

Come descriveresti la crescita e l'affermazione di Under Armour nell'universo sportivo?

Metaforicamente dico sempre che, come brand, Under Armour sin dall’inizio non ha cercato di prendersi solo una fetta del mercato dell’abbigliamento sportivo, ma ha puntato a crearsi la propria torta. Abbiamo sempre giocato secondo le nostre regole, scegliendo di scrivere una nuova pagina dell’industria sportiva.

Come nasce l'ingresso nel mondo del calcio?

Abbiamo costruito il nostro successo partendo dal football americano, ma come ben sapete oggi siamo arrivati persino al calcio. Magari penserete: "Chi l’avrebbe mai detto?", ma in realtà era tutto parte del masterplan di Under Armour. Ci definiamo una sport house, e per essere una delle migliori sport house del mondo non potevamo non puntare su quello che considero essere il miglior sport del mondo: il calcio. Oggi il roster calcistico di Under Armour vanta atleti di fama mondiale nel nostro roster, da Antonio Rüdiger, Achraf Hakimi e Fermín López, solo per menzionarne alcuni. 

Se penso ai primi passi che abbiamo mosso nel calcio, quasi non ci credo. Tra il 2006 e il 2007 eravamo in contatto solo con una manciata di club della Premier League, ma alla fine non si concretizzò nulla fino al 2012, anno in cui ufficializzammo la partnership con il Tottenham Hotspur. Ricordo ancora il giorno in cui presi un volo da New York a Londra per incontrare Daniel Levy, che già all’epoca era presidente del club.

Non lo neghiamo, vogliamo saperne di più sulla storia della maglia termica. 

Giocavo a football americano e notavo sempre che, sia durante l’intervallo che a fine partita, la maglietta di cotone che si indossava sotto la divisa da gara e sotto le protezioni, come gli shoulder pads, era sempre completamente pregna di sudore. Oltre a far perdere un sacco di tempo durante la partita — perché a fine primo tempo bisognava smontare tutta l’armatura per cambiarsi e indossare una maglietta asciutta — questo sudore appesantiva il corpo, penalizzando fortemente le prestazioni di ogni atleta.

Ecco perché oggi gli atleti non indossano più magliette di cotone: perché Under Armour ha cambiato la storia, inventando la maglia in fibra sintetica. Una vera e propria rivoluzione nel mondo dei tessuti sportivi.

Ti va di raccontarci un dettaglio che nessuno conosce sulla firma di Steph Curry con Under Armour?

Inizio col dire che vedere Steph Curry crescere parallelamente al percorso di Under Armour è per me una soddisfazione enorme. C’è una storia divertente legata proprio alla sua scelta di firmare con Under Armour. Si racconta che, quando Steph non aveva ancora firmato con nessun brand di abbigliamento sportivo, mise a terra tre box: una con scarpe Nike, una con scarpe adidas e una con scarpe Under Armour. Poi chiese a sua figlia Riley, che all’epoca aveva solo due anni, di scegliere il paio che preferiva.

La leggenda vuole che Riley abbia preso prima le Nike e le adidas, le abbia osservate per bene, e poi le abbia messe da parte. Infine, avrebbe preso le Under Armour e le avrebbe portate al papà. Quindi sì, grazie Riley per aver contribuito a portare Steph nella famiglia Under Armour.