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Tyrese Haliburton, il sopravvalutato

Il motivo per cui gli Indiana Pacers hanno raggiunto le NBA Finals

Tyrese Haliburton, il sopravvalutato Il motivo per cui gli Indiana Pacers hanno raggiunto le NBA Finals

Dopo venticinque anni, e per la seconda volta nella loro storia, gli Indiana Pacers sono alle NBA Finals. Con un sogno in testa che nessuno avrebbe immaginato fino a poche settimane fa, e mai realizzato dalla franchigia (se non in ambito ABA) in più di mezzo secolo di storia. Anche quest’anno la squadra di coach Rick Carlisle, guidata dalla sua stella Tyrese Haliburton, è stata la sorpresa dei playoff, come nel 2024; ma se allora la corsa si era fermata alle finali della Eastern Conference, nel 2025 i Pacers hanno fatto ancora più strada. E rumore. Hanno eliminato i Milwaukee Bucks e i Cleveland Cavaliers con un doppio gentlemen sweep (4-1) nei primi turni, poi i New York Knicks in sei gare, e ora si apprestano a rappresentare l’est nella serie per il titolo.

Dall’altra parte ci sono gli stra-favoriti di questa post season, gli Oklahoma City Thunder, anche loro all’inseguimento del primo, storico anello (escluso quello vinto come Seattle SuperSonics, nel lontano ‘79). Per i Thunder, comunque, le NBA Finals in arrivo sono un punto di partenza - in quanto squadra da battere, ma anche per il futuro che attende Shai Gilgeous-Alexander (fresco di MVP) e compagni. Per i Pacers invece essere qui rappresenta già un enorme traguardo.

La serie regina del basket americano è passata dall’Hoosier State, terra del basket per antonomasia, una sola volta nella storia. Ovviamente ai tempi di Reggie Miller. Poi i Pacers ci hanno provato con Paul George e coach Frank Vogel, e ci sono andati vicino, ma non hanno mai superato il muro LeBron James. Ora sono riusciti ad arrivare fino in fondo, guidati da una delle stelle più giovani, luminose e rumorose della lega. Sì, quell’Haliburton che il mese scorso era stato eletto da alcuni colleghi come giocatore più sopravvalutato della lega, e che nel frattempo si è tolto due o tre sassolini dalle scarpe. Dentro e fuori dal campo, ma rigorosamente in quest’ordine.

La narrativa del sopravvalutato

Il 29 aprile The Athletic ha pubblicato il suo solito NBA Player Poll, il sondaggio condotto annualmente dalla redazione newyorkese tra giocatori della lega. Una serie di domande a cui hanno risposto tra gli 80 e i 150 atleti (secondo il quesito), in forma anonima. E come in altre edizioni passate, una voce che ha attirato grande attenzione mediatica è quella sul giocatore più sopravvalutato della lega, che ha visto Tyrese Haliburton al primo posto nelle risposte con il 14.4%, seguito da Rudy Gobert, Trae Young, Jimmy Butler e Draymond Green.

La votazione ha avuto un’eco abbondante, fin troppo: 90 votanti e 13 preferenze non rappresentano nulla di granché significativo. Il timing però ha fatto la sua parte, con la pubblicazione a inizio playoff e in prossimità di alcune delle prestazioni più brillanti di Haliburton. Il cui nome, da quel momento in avanti, è stato accompagnato spesso e volentieri dalla parola overrated: un’etichetta difficile da scrollarsi di dosso, ma che la stessa point guard dei Pacers ha scelto di fare propria, come forma di rivincita.

Prima di tutto, però: cosa si intende con il termine sopravvalutato, in questo contesto? Nella cultura sportiva americana, e nel mondo NBA in particolare, non è solo una questione tecnica: è spesso un modo per esprimere fastidio verso l’attenzione mediatica, la narrativa favorevole o i contratti ricevuti da certi giocatori. Non a caso negli anni precedenti la stessa nomina e i primi posti nei Player Poll di The Athletic erano toccati, tra gli altri, a Rudy Gobert, Draymond Green, Trae Young, Russell Westbrook e Karl-Anthony Towns: tutti giocatori molto visibili, polarizzanti, o legati a contratti che alcuni colleghi - non senza gelosie - considerano immeritati.

Nel caso di Haliburton, 25 anni, il giudizio suona abbastanza curioso: non è un realizzatore ossessionato dai propri numeri - comunque stratosferici - o un accentratore eccessivo dell’attacco di Indiana; e non è nemmeno un personaggio troppo divisivo fuori dal campo - non al livello di altri nomi citati almeno - o celebrato in modo esagerato dai media nazionali. Ma è un giocatore con uno stile tutto suo, nella mimica tendente al plateale così come nelle parole. Ed è un due volte All-Star e un oro olimpico, intestatario di un ricco contratto che è stato largamente screditato nei suoi ultimi mesi, fatti di alti e bassi, dopo la sorprendente corsa nei playoff 2024. Per qualcuno, tutto questo è bastato. Non è un parere tecnico, quindi, ma una sorta di reazione. A un’immagine, più che a uno stile di gioco.

Revenge tour

Haliburton non ha rilasciato dichiarazioni frontali sul sondaggio, nei giorni dopo la pubblicazione su The Athletic. Ne ha preso anzi le distanze, e con una certa freddezza, quando gli è stata posta la domanda. Poi ha iniziato a rispondere sul parquet, una prestazione da superstar dopo l’altra, trascinando i Pacers sul tetto della Eastern Conference. Prendendosi durante il percorso qualche goduta rivincita nei confronti dei suoi detrattori, edificando la propria contro-narrativa, e trasformando la sua post-season in un revenge tour.

Quando ha chiuso la serie contro Milwaukee, coronando con il tiro decisivo una delle folli rimonte dei Pacers dell’ultimo mese, ha twittato due parole soltanto: “overrate THAT”, “sopravvalutate QUESTO”. Poi è arrivata la serie contro i Knicks, e già in gara 1, dopo un altro finale pazzo suo e di Indiana, Haliburton ha mimato il gesto del choke, il segno dello strangolamento reso celebre da Reggie Miller proprio al Madison Square Garden rivolgendosi a Spike Lee. E non sono mancate altre mimiche iconiche: le big balls dopo una tripla, l’esultanza della tripla rubata a Brunson, la rimessa con 0.2 secondi da giocare regalata a Towns in modo quasi provocatorio. Insomma, quello che oltreoceano definiscono un villain. Anche la famiglia è finita in questa storia, con il padre John che era stato bannato dall’arena casalinga dopo un alterco con Giannis Antetokounmpo, al termine della serie contro i Bucks. Nell’ultima settimana il padre di Haliburton è stato ammesso nuovamente sugli spalti della Gainbridge Fieldhouse (ex Bankers Life FieldHouse) di Indianapolis.

Superstar senza asterischi

Ultimo ma non ultimo, c’è da parlare delle prestazioni e dei numeri di Haliburton in questi playoff. Nelle sei partite contro New York ha viaggiato a quasi 21 punti, 11 assist e 6 rimbalzi di media, con 2.5 palle recuperate e appena 1.7 perse. In gara-4 ha consegnato alla storia dei playoff NBA la prima tripla-doppia da 30+ punti, 15+ assist e neanche una palla persa. In totale 63 assist e 10 palle perse nella serie, cioè un rapporto AST/TO di 6.3 (clamoroso, con un volume di gioco così elevato).

Ma non è solo questione di cifre, come dice lo stesso Tyrese. “A volte mi sembra che ci si stia inventando statistiche per farmi sembrare migliore”, ha detto ridendo dopo gara-4 delle Conference Finals. “Io provo solo a fare la cosa giusta, quello che serve alla squadra per vincere”. Ed è questo, più di tutto, che rende la sua run incredibile: la capacità di incidere senza mai dare l’impressione di forzare, di pilotare l’attacco di coach Carlisle come un computer, con letture tutt’altro che scontate per chiunque, figurarsi per un 25enne alla sua seconda post-season in carriera.

Haliburton ha piegato Milwaukee, Cleveland e New York dimostrando una capacità di manipolare le difese avversarie propria soltanto dei migliori mega-creator dell’NBA. Grazie a lui Indiana riesce a mantenere per 48 minuti a sera un ritmo proibitivo quasi per chiunque, e senza mai perdere le redini del gioco. Insomma, se nel 2024 l’ex Sacramento Kings era una stella emergente, quest’anno è il leader tecnico e simbolico di una squadra da NBA Finals. Non è più una questione di percezione: nessuno, oggi, può dire che Tyrese Haliburton sia un’esagerazione, figurarsi un sopravvalutato.