
Sono tornati i cappotti nel calcio Con AMIRI, Enzo Maresca e Luciano Spalletti
Quando si pensa all’immagine dei cappotti nel mondo del calcio, vengono subito in mente due figure iconiche, molto diverse tra loro, così come diversi sono i cappotti che le rappresentano. La prima è quella di Arsène Wenger, che con il suo celebre cappotto adidas (e successivamente PUMA, dopo il cambio di sponsor dell’Arsenal) ha costruito gran parte del proprio personal branding. Quel cappotto – lungo, ingombrante, quasi fino a terra – è riuscito a trascendere i confini sportivi, diventando uno dei meme più diffusi legati al calcio, soprattutto su TikTok e Instagram.
L’altra immagine, invece, riguarda Louis van Gaal. Sì, proprio Van Gaal che, ai tempi dell’Ajax, nella stagione 1991, insieme al suo vice Gerard van der Lem, era solito indossare degli incredibili trench firmati Umbro. Oggi, se Wenger sembra aver passato idealmente il testimone a Enzo Maresca, che appare quasi inseparabile dal cappotto con lo stemma del Chelsea realizzato da Nike, si sta assistendo a un ritorno di cappotti dalle linee e dai dettagli più classici. Li vediamo non solo sugli allenatori, ma anche sui calciatori. In questo senso, va riconosciuto il merito ai brand di formal wear che collaborano con le squadre: Giorgio Armani per la Juventus e AMIRI per il Barcellona, che hanno introdotto con forza capispalla eleganti e strutturati. Tuttavia, mentre i calciatori si limitano a indossarli nei momenti pre-partita, sono gli allenatori – o almeno alcuni di loro – a sfoggiarli anche a bordo campo, come nel caso di Luciano Spalletti.
Lo stile personale degli allenatori
Naturalmente, nella maggior parte dei casi, lo stile sfoggiato dagli allenatori dipende quasi esclusivamente dalle sponsorship del club che allenano, siano esse legate agli sponsor tecnici o ai partner di formal wear. Ad esempio, Arsène Wenger non avrebbe mai indossato quel cappotto lunghissimo se Nike non ne avesse avuto uno simile a catalogo; lo stesso discorso vale per Louis van Gaal: nonostante quel capo Umbro fosse un modello da tutti i giorni (come dimostra anche il remake realizzato da LC23 in collaborazione con Umbro, riprendendo lo stesso identico design), se il club non fosse stato sponsorizzato dal marchio inglese, l’allenatore non lo avrebbe mai indossato. E se oggi i cappotti stanno tornando, il merito va sì ai brand, ma non tanto per una strategia mirata a reintrodurli nel mondo del calcio, quanto per la loro naturale presenza nelle nuove collezioni. Ed è qui che tornano gli esempi di Giorgio Armani e AMIRI, che hanno saputo integrare capotti elegantissimi nel linguaggio estetico delle squadre con cui collaborano.
Negli ultimi dieci anni sono stati sempre di più, invece, gli allenatori che hanno portato sul campo il proprio stile personale: su tutti Pep Guardiola, che ha praticamente delineato un’uniforme caratterizzata da un accostamento piuttosto insolito, quello tra Stone Island e Rick Owens. Figure come quella di Guardiola hanno dunque rappresentato un barlume di speranza di fronte a un appiattimento sempre più totale del formalwear. C.P. Company, entrata nel calcio con le sponsorizzazioni di Bologna e Manchester City, ha proposto silhouette quantomeno diverse rispetto a quelle delle altre squadre, ma ha comunque faticato a rivoluzionare – o meglio, a dirottare – l’omologazione del formalwear. Anche perché, ad esempio, lo stesso Guardiola continua a preferire in panchina capi provenienti direttamente dal suo guardaroba personale.
Non possiamo che essere contenti, dunque, del ritorno di un capo iconico come il cappotto, che porterà quantomeno un minimo di diversità sulle panchine degli allenatori. Avevamo già parlato, in questo articolo, di come gli allenatori di Serie A - a un certo punto, ma in realtà ancora oggi - adottino praticamente tutti lo stesso stile.
















































