
«Produciamo quello che disegniamo» - Intervista a Monica e Paola Santini Siamo stati a Bergamo per visitare la sede di Santini
Dal 1965 Santini è sinonimo di ciclismo. E dal 1965 il ciclismo è sinonimo di Santini. Nata a Bergamo come azienda a conduzione familiare, è diventata un punto di riferimento globale per estetica, tecnologia e produzione, grazie alle intuizioni del Cavalier Pietro Santini. Il brand oggi è celebre in tutto il mondo grazie alle collaborazioni con i ciclisti più noti, i team più vincenti e le gare più prestigiose, mantenendo però un forte legame con il territorio bergamasco, una scelta dettata non solo dalla praticità ma dal desiderio di restituire qualcosa alla comunità.
La nuova sede da 24mila metri quadrati situata nel cuore della città, con la sua estetica brutalista, ospita gli uffici amministrativi e creativi, l'archivio, lo store e, soprattutto, il cuore produttivo. 150 dipendenti in totale che, grazie anche ad un confronto diretto e una linea operativa più snella, lavorano alla creazione di 7000 pezzi ogni giorno, tutti cuciti a mano: dagli indumenti indossati al Tour de France a quelli scelti da amatori e appassionati per le loro uscite in solitaria oppure in gruppo.
In tutto quello che viene prodotto da Santini c'è passione. C'è dedizione. C'è esperienza. C'è competenza. C'è la voglia di difendere la tradizione e di guardare avanti ispirati dall'innovazione. Lo si intuisce perfettamente mentre visitiamo la sede in ogni suo angolo guidati da Fergus Niland, direttore creativo di Santini Cycling. Lo si capisce ancora meglio dalle parole di Monica Santini, CEO di Santini Cycling e Paola Santini, Marketing Manager del brand.
Qual è il vostro primo ricordo legato all’azienda?
Monica Santini: "Sicuramente il mio primo ricordo dell'azienda era la fabbrica da bambina. Era un classico che non sapendo dove mettermi durante le vacanze estive piuttosto che i pomeriggi, venivo infilata in fabbrica e mi davano piccoli compiti tipo paraffinare la lana quando si lavorava la lana piuttosto che pulire i capi dai fili che avanzavano. Cose di questo tipo e ricordo in realtà tanti tanti bei giorni, alcuni dipendenti della fabbrica ovviamente mi avevano preso un po' come una mascotte".
Paolo Santini: "Oltre alle vacanze estive come dice Monica, ricordo che durante la scuola avevamo l'appartamento di famiglia sopra gli uffici e quindi era un classico che io arrivassi a casa e facessi tutta la trafila degli uffici salutando tutti così per poi salire, mangiare, fare i miei compiti ed eventualmente poi scendere alla bisogna o per chiedere cose a mamma e papà".
Quando avete capito che il ciclismo sarebbe stata la vostra strada?
MS: "Nel subconscio un po' probabilmente tutti noi abbiamo sempre avuto l'idea che questa questa azienda di famiglia sarebbe stata un po' almeno parte della nostra vita di sicuro, poi che diventasse la nostra vita magari ci siamo arrivati un po' dopo. Io stavo facendo delle esperienze di lavoro all'estero, vivevo in Brasile da alcuni anni e ad un certo punto mio padre mi chiamò dicendomi che lui stava arrivando alla giovanissima età di 60 anni. Mi disse: ‘Dimmi cosa vuoi fare perché se mi dici che non vuoi tornare a gestire l'azienda allora devo prendere delle altre decisioni’. È quella fu come una last call della serie ‘cosa vuoi fare da grande?’. Ad un certo punto devi decidere e e decisi di tornare a Bergamo e prendere in mano le redini dell’azienda".
PS: "Per me è stato un po' un copy and paste di quanto accaduto a Monica, con la differenza che a me la chiamata è arrivata da Monica e non da mio padre. Io ero a Londra quando Monica mi chiamò un giorno dicendomi che aveva bisogno di una mano per la parte di comunicazione e marketing. Quello era il mio lavoro. Mi disse: ‘Se torni, io volentieri la metto nelle tue mani. Se no fammi sapere che prenderemo un'altra decisione’. Io lì ci ho pensato e siccome comunque l'ambiente mi piaceva, ho sempre pensato che il nostro fosse un lavoro super entusiasmante, in un campo bellissimo di grande passione come è lo sport, ho detto va bene ok torno".
Domanda banale: ma a voi piace il ciclismo? Lo praticate?
MS: "Tantissimo, da matti. Io sono un'avida fruitrice di qualsiasi gara ciclistica che si possa trovare in televisione e mi piace ovviamente andare alle gare. Mi è sempre piaciuto e lo trovo uno sport bellissimo con dei valori di fondo incredibili. Un po' demodè mi viene da dire per via della fatica, del sacrificio, della sofferenza ma è uno sport che amo tantissimo".
PS: "Anche a me piace molto. Credo che io e Monica ci compensiamo perché lei è quella che non si fa scappare dovunque sia nel mondo una una gara ciclistica, a me piace molto più andare in bicicletta piuttosto che guardare le gare. A me manca di più non poter uscire in bici perché magari sono impegnata".
Il ciclismo è un mondo prevalentemente maschile: avete trovato degli ostacoli quando siete entrate? Il cognome vi ha aiutato a superare eventuali diffidenze?
MS: "Più che il cognome, un po' il rispetto che avevano nei confronti di papà. Io personalmente non mi sono mai soffermata sul fatto di essere una donna piuttosto che un uomo. Non mi ha mai limitato psicologicamente. Non sono nemmeno una persona che si aspetta l'accettazione. Io sono quello che sono, se piaccio piaccio e se non piaccio pazienza. Sto bene lo stesso. Credo che sia stato un elemento molto d'aiuto il fatto di essere stata anche parte di questo mondo fin da bambina. Non sono rari i casi in cui mi è capitato di essere l'unica donna seduta ad un tavolo piuttosto che l'unica donna in un bus di una squadra. Non mi sono mai preoccupata di questa cosa e quindi, forse, non preoccupandomi non ho sentito grandi pressioni".
PS: "Nostro padre ha sempre avuto una quantità immensa di donne a lavorare per lui. A parte nella filiera produttiva dove per cultura e per tradizione tutta la parte di cucito è donna, anche negli uffici di uomini facevo veramente fatica a trovarne. Nostro padre ci ha sempre fatto vivere nella consapevolezza che non c'erano limiti di nessun genere e quindi noi forse partendo da questo presupposto non ci siamo mai neanche poste il problema. Oggi sicuramente ci troviamo con un sacco di altre donne nel nostro ambito ed è molto bello anche il confronto sicuramente però io personalmente non ho mai avuto grossi problemi a essere all'interno di un ambiente più maschile".
Oggi che il ciclismo sperimenta un’estetica sempre più ricercata, di nicchia, come si pone un brand internazionale come Santini?
PS: "Noi ci poniamo come un brand che si differenzia dagli altri perché innanzitutto noi produciamo quello che disegniamo quindi tutta la nostra filiera dall'inizio alla fine è seguita da noi. Questo ci porta ad avere un prodotto che è molto ben pensato ma è anche il risultato di uno sforzo corale. Non siamo un brand che disegna e poi delega la produzione a qualcuno. Sicuramente, dal mio punto di vista questo è qualcosa che ci distingue e ci permette di offrire flessibilità. Non solo con ciclisti professionisti, con cui lavoriamo giornalmente ed è capitato di produrre capi in un giorno per un atleta o un'intera squadra. Ma anche per quello che riguarda il rapporto con i negozianti. E poi c’è la cura di tutta la parte tecnica, con tutto il nostro team di ricerca e sviluppo, unita anche a quello che è lo stile. Quello che non vogliamo è essere un brand solo di stile oppure solo di tecnologia e performance".
MS: "Noi siamo un brand che è cresciuto con il ciclismo. I nostri 60 anni sono da un lato ovviamente il nostro heritage e quindi possiamo dire di aver fatto tutte le varie tappe, essere stati protagonisti di tantissima innovazione nel corso di questi 60 anni. Dall'altro ci lascia anche ovviamente una conoscenza molto approfondita di quello che questo sport ha bisogno e di come possiamo rispondere. I nostri 60 anni da un certo punto di vista potrebbero essere un peso, nel senso che è chiaro che un brand di 60 anni può essere visto come un brand vecchio. Credo che il lavoro che è stato fatto da me e da Paola abbia invece portato i 60 anni ad essere un valore. Il nostro heritage unito alla voglia di innovazione costante ci porta ad avere probabilmente degli elementi che altri non hanno".
Avete mai collaborato o pensato di collaborare con un brand di moda? E come si lega il fashion all’estetica del ciclismo?
PS: "Abbiamo fatto diverse collab con il mondo della moda o con altri mondi diversi dal ciclismo. Uno sicuramente dei più recenti è K-Way. Da dove viene? Allora in certi casi viene dal brand stesso, in altri casi siamo noi magari a cercare una tipologia di collab. Nel caso di K-Way è stata una loro volontà: volevano approcciare il mondo del ciclismo e volevano avere qualcosa di centralizzato sulla bici anche nei loro store. Hanno scelto noi perché riconoscevano un heritage molto vicino a quello che è il brand K-Way che tra l'altro è nato nel 1965 esattamente come noi".
MS: "Abbiamo cominciato a fare collab 30 anni fa e sicuramente il mondo della moda è quello un po' più evidente ma abbiamo collab anche con brand che hanno un unione di interessi. L’ultima per esempio è stata con Brooklyn, la famosa gomma del ponte, che aveva una squadra iconica negli anni ‘70 e con la quale abbiamo fatto proprio una capsule molto bella riprendendo la maglia di lana. In questo siamo stati scelti perché creare le maglie di lana non è proprio da tutti e anche grazie al nostro lavoro che stiamo facendo da tanti anni con Eroica noi invece riusciamo ancora a lavorare la lana come facevamo all'inizio. Con Pirelli abbiamo una collab che dura da due anni e che continuerà ancora. In questo caso la bellezza del poter entrare negli archivi storici di Pirelli, un marchio con più di 100 anni di storia, con dei contenuti di design pazzeschi anche nelle loro pubblicità storiche, è stato uno degli elementi bellissimi appunto sul quale abbiamo cominciato a lavorare. Anche noi crediamo fortemente che le collab possano essere un bellissimo elemento di promozione del nostro brand in mondi diversi e anche a loro volta da altri brand nel mondo del ciclismo".
Ci sono dei collezionisti nel mondo del ciclismo? Come funziona?
MS: "C'è sicuramente del collezionismo. Il ciclismo ha ovviamente tutta quella iconografia bellissima appunto degli anni del passato e ovviamente noi essendo un brand che è cresciuto con il ciclismo, abbiamo tanti pezzi. Devo dire che ci mancano anche tanti pezzi perché ovviamente all'inizio non c'era quell'idea del costruire un archivio che potesse servire un domani, si pensava solo a lavorare. Papà non aveva proprio questo pallino del tenere, lui vendeva. Quindi ci mancano tanti pezzi che noi cerchiamo sul mercato. La nostra è una collezione ampia e devo dire che quando abbiamo ospiti che visitano l’archivio rimangono sempre molto colpiti e vorrebbero portarceli via. In più occasioni abbiamo fatto dei prestiti per delle mostre".
PS: "I vecchi dirigenti e i vecchi corridori non hanno tenuto niente di solito, anzi a volte è più facile trovare sul web collezionisti che magari rivendono cose e quindi in questo modo ogni tanto ritroviamo dei pezzi".
MS: "Abbiamo provato tante volte anche contattando i corridori ma purtroppo è difficile che si siano tenuti delle maglie. Poi adesso ci sono anche diversi musei, soprattutto in Europa, che magari hanno ricevuto diverse donazioni nel corso degli anni da professionisti che magari non sapevano cosa farsene di quel materiale e lo hanno dato ai musei. Abbiamo individuato alcuni pezzi ma non ce li hanno venduti, stiamo cercando di farceli lasciare come lascito".
Ultima domanda: maglia gialla oppure maglia iridata?
MS: "Io nel cuore ho le Rainbow Stripes, sarà che è la sponsorship che abbiamo da più anni ed è quella che ricordo fin da bambina. Il Mondiale per me è sempre stata quella gara a cui non sono mai mancata, anche proprio fisicamente sul posto. Non perché abbia un valore più o meno forte sul mercato, semplicemente se tu lo chiedi a Monica come persona io ti direi maglia iridata. Tant'è che noi abbiamo da diversi anni appunto anche questo claim che è l'hashtag The Rainbow Factory proprio per questo motivo. Da un certo punto di vista se ci pensiamo, è l'unica maglia che non porta sponsor. È la rappresentazione di un valore, di un raggiungimento di un obiettivo. E poi ha dei colori bellissimi che sicuramente la rendono veramente unica e nel corso degli anni devo dire che ci ha dato veramente tantissime bellissime soddisfazioni".
PS: "Anche per me la maglia iridata, innanzitutto nel corridoio per arrivare qua c'è un quadro dove appunto sono dipinte delle mani che cuciono una maglia ridata, il quadro è intitolato ‘Cucendo sogni e arcobaleni’ e secondo me ecco quella è la ragione, cioè effettivamente se uno ci si pensa la maglia iridata è il sogno di qualsiasi bambino che inizia ad andare in bicicletta. È quel simbolo che rappresenta l'essere il migliore al mondo. Oltre ad essere obiettivamente una bellissima maglia che piace tanto anche a chi non pratica ciclismo e magari non lo segue nemmeno, ha sicuramente un significato molto molto profondo".






















































