
Come il motorsport ha influenzato Massimo Osti E come Massimo Osti ha influenzato il motorsport
Il Massimo Osti Archive a Bologna ha un solo difetto: manca l’aria condizionata, la miglior compagna di viaggio in un’afosa giornata di metà luglio. Colpa di un sistema elettrico antiquato che non permette di effettuare un attacco con prese da 380V. È il primo aneddoto che ci racconta Lorenzo Osti, il figlio di Massimo e presidente di C.P. Company, mentre ci accoglie in uno spazio che definire archivio è persino riduttivo. Quella che appare davanti a noi è una miniera che raccoglie una parte infinitesimale delle produzioni di Massimo Osti: circa 2000 capi tra vintage militare, le prime produzioni pionieristiche per Anna Gobbo, capi Chester Perry, cappotti Stone Island, giacche C.P. Company, prototipi, bozzetti e molto altro come l’innovazione tessile portata avanti grazie ai brand Left Hand e Massimo Osti Production.
E tra una giacca realizzata con una tenda della doccia rubata ad un amico e un disegno della prima versione del cappotto con le Goggle, esplorando l’archivio ci si imbatte con regolarità in capi oppure accessori dedicati al mondo dello sport. Ad esempio spiccano gli scarponi da sci realizzati per Stone Island oppure le iconiche sacche da tennis griffate sempre Stone Island con la patch in gomma che disegna esternamente il piatto delle racchette. Ogni angolo dell’archivio poi è arredato con una sacca da golf, sempre griffata Stone Island.
Non mancano i riferimenti al motorsport. D’altronde la stessa leggenda di C.P. Company si rafforza grazie alle corse automobilistiche e all’intuizione di Massimo Osti di realizzare un indumento che potesse essere indossato dai piloti della 1000 Miglia, stiamo parlando della giacca con le lenti Goggle sviluppata per C.P. Company sul modello di un elmetto in dotazione all’esercito giapponese.
Su una delle colonne con mattoni a vista è stata appesa una tuta rossoverde da motociclista che non porta nessuno dei marchi sviluppati da Osti. Non è un errore né tanto meno una svista, quella tuta è presente in archivio perché era oggetto di studio. Le ricerche di Osti avevano come stella polare la funzionalità di un capo, le proprietà del materiale utilizzato e il significato di ogni singolo componente. Ogni singola valutazione veniva poi salvata uno dei suoi immancabili block notes così che successivamente, non appena ci fosse stata l’occasione adatta, avrebbe provato a trasferirla nella sfera del fashion.
Nel caso delle tute da motociclista, questo processo creativo ad inizio anni 2000 trova sfogo in una collaborazione con Levi’s grazie ad una Modular Padded Jacket reversibile dotata di una serie di pannelli protettivi sia sul petto che sulla schiena la cui ispirazione è tratta liberamente dalle saponette di cui sono provviste le tute e i giubbotti da motociclisti.
Come detto però l’archivio è pieno anche di prototipi, categoria a cui appartiene una tuta da meccanico celeste nascosta da centinaia di capi appesi sulle rastrelliere situate nella sua area. Nel 1984 Osti venne incaricato di ridisegnare le uniformi da lavoro dei dipendenti Volvo e a sua volta affidò ad Andrea Pazienza il compito di creare delle illustrazioni. Ogni reparto avrebbe avuto la sua patch specifica. Una collezione visionaria, dedicata esclusivamente agli operai che però, per una questione di costi, non venne mai realizzata.
Quella tuta è però l'ennesima prova di come il genio di Osti continui ad affascinare anche a 20 anni dalla sua scomparsa, anniversario che viene celebrato con una mostra intitolata "Ideas From Massimo Osti" allestita presso Palazzo Pepoli, ovviamente a Bologna la città natala a cui Osti era profondamente legato. Grazie ad una scenografia evocativa che in alcuni casi riproduce fedelmente gli ambienti in cui operava Osti, come ad esempio la ricostruzione del suo studio in via Gaibola con tanto di tavolo da lavoro con forbici e pinzatrice incatenate così che non venissero smarrite, la mostra ripercorre l’eredità creativa di una figura avanguardistica che ha saputo trasformare radicalmente il mondo dell’abbigliamento, imponendo un’estetica unica e riconoscibile.
Ma se nel contesto dell’archivio si percepiva la sensazione di come il motorsport avesse in qualche modo influenzato la visione di Osti, tra i muri della mostra la percezione viene ribaltata con indizi chiari su come Massimo Osti abbia cercato, e in alcuni casi sia riuscito, ad influenzare il motorsport. Ad esempio c’è anche la sua firma su una delle primissime corse automobilistiche con vetture elettriche tenutasi lungo le strade di Roma nel 1990. La sigla Massimo Osti Studio è infatti ben visibile sulla Boxel P488 disegnata dall’ingegner Paolo Pasquini. E se oggi siamo abituati a vedere fashion brand fare la fila per associarsi a scuderie di F1, il merito è anche di Osti, un pioniere nella capacità di trascinare il mondo del fashion al di fuori della propria bolla. Sempre sulle pareti della mostra, aperta al pubblico sino al prossimo 28 settembre, si trovano anche altri esempi di fusione tra fashion e motorsport come ad esempio i bozzetti della Vespa che Osti aveva ridisegnato inserendo alcune componenti che aveva sviluppato con Stone Island, come ad esempio le patch in gomma per proteggere le carene esterne sempre soggette a graffi ed ammaccature.
La mostra permette di entrare in contatto con le tante anime artistiche di Massimo Osti. L'ingegnere-designer convinto che le intuizioni più innovative potessero nascere dagli errori. Il pioniere dello sportswear che attraverso un approccio rigoroso e visionario ha saputo rivoluzionare i canoni dell'estetica sportiva prima ancora che questa potesse essere riconosciuta come un trend. E se la selezione di capi iconici realizzati nel corso della sua carriera non è sufficiente per trovare ispirazione, arrivano in soccorso le parole dello stesso Massimo Osti. Sono appuntate su un quadernetto posto all'interno di una vetrina, accanto ad un'agenda trovata casualmente in Cina riportante la sigla MO che diventerà successivamente il logo di Massimo Osti Production. Sulle pagine bianche del quadernetto c'è una frase scritta a mano, in stampatello, tanto semplice quanto potente per la sua forza evocativa: "Bisogna dire ciò che si fa e fare ciò che si dice".




































































