
Che aria si respira ad un Mondiale di ciclismo in Rwanda? Un racconto da dentro Kigali 2025 e dei momenti più indimenticabili che ha regalato
Dovendo rispondere in senso letterale alla domanda nel titolo: un'aria non buona. Per i livelli di inquinamento di Kigali, da dove scrivo, ma anche per l'aria rarefatta a 1.700 metri sul livello del mare. Aggiungete il caldo umido dell'inizio della stagione delle piogge, una città che è tutta colline, ciottoli, salite e discese (non solo per i ciclisti in gara), un percorso disegnato dall'UCI per stroncare gambe e fiato dei corridori, ed ecco spiegate le scene di annientamento fisico e di apnea che abbiamo visto ogni giorno dopo il traguardo del Convention Center.
Ne so qualcosa, peraltro: in settimana sono passato davanti al campo da basket del Rafiki Club e ho ceduto alla tentazione di un tre-contro-tre con alcuni ragazzi del posto; dopo cinque minuti mi sembrava di avere una serie di NBA Finals nelle gambe, e quando abbiamo finito ero a malapena in grado di riconoscere il mio motorino tra quelli parcheggiati davanti al playground. Ecco, questa è l'aria che si respira quaggiù, ma prendiamo in senso più ampio la domanda da cui siamo partiti. E quindi, com'è stata l'atmosfera intorno a Kigali 2025, lo stranissimo Mondiale di ciclismo che ha fatto visita per la prima volta al continente africano?
Come raccontato in precedenza in questo articolo, la strada verso l’edizione 2025 è stata lunga e tortuosa, dal giorno uno dell'assegnazione dell'UCI, nel 2021. Una volta atterrato in Rwanda, però, le infinite controversie dell'evento e i cupi scenari geopolitici che lo circondano hanno lasciato spazio - pur non sparendo - a tutto il fascino di questa rassegna iridata. Ed eccomi qui per raccontarvi alcuni momenti della mia settimana a Kigali, provando a colmare un po' di quei cinquemila chilometri circa che separano i Road World Championships 2025 da chi ha guardato l'evento da casa, nel vecchio continente. Una distanza suggerita dalle spettacolari immagini giunte in questi giorni da Kigali, e ancora più nitida per chi, come me e tanti tifosi, giornalisti e addetti ai lavori internazionali, ha vissuto in loco il Mondiale di ciclismo più strano di sempre.
Rwanda o Fiandre?
La gara più attesa del primo weekend, la cronometro maschile élite, ha avuto un protagonista indiscusso: Remco Evenepoel. E più in generale il tifo in arrivo dal Belgio, come spesso avviene in rassegne del genere - sì, anche a migliaia di chilometri, continenti di distanza. Al momento dell’iconico aggancio a Pogacar sulla Côte de Kimihurura (l’ultima rampa in pavè), e ancora di più quando Evenepoel è arrivato alla linea del traguardo con il miglior tempo (per distacco), al Convention Center di Kigali è sembrato per un momento di trovarsi nel cuore delle Fiandre, casa del ciclismo per definizione. Bandiere col tricolore belga, due ciclisti fiamminghi sul podio (con medaglia di bronzo di Ilan Van Wilder), l’inno, i cori «Remco, Remco!». Una scena suggestiva, che racconta tutta la passione e la fame di grandi eventi del popolo belga del ciclismo, e che allontana le tante tensioni politiche (passate e presenti) che legano i due paesi.
Se Evenepoel ha tagliato il traguardo con tre dita al cielo, a ricordare che lo scettro della cronometro è suo per la terza edizione consecutiva, chi è uscito deluso dalla prima giornata è stato il rivale Tadej Pogacar. La sfida contro il tempo non è la sua specialità, ma ormai è chiaro che per la stella slovena, come si dice, il limite è il cielo. E dunque Pogi si è presentato a Kigali - nel giorno del suo ventisettesimo compleanno - con l’ambizione di una difficilissima doppietta, ma nella cronometro non c’è stato margine per ribaltare le gerarchie: manifesta superiorità dell’avversario. Il momento della rivincita, comunque, arriverà nella gara più importante di tutte, la prova in linea di ieri, in cui Pogacar ha ricordato al mondo intero di essere il migliore. Di oggi, e forse - presto per dirlo? - non solo dei giorni nostri.
Sopralluogo al Kigali Wall
Andata in archivio la gara a cronometro, da lunedì i miei pensieri sono volati alla corsa del weekend. Senza nulla togliere alle tante e interessanti sfide di mezzo - le crono e le prove in linea dell’Under 23 e Juniores, maschili e femminili - i fatti del primo giorno hanno nutrito la curiosità di vedere come avrebbe reagito Pogacar. Di capire se nel suo habitat naturale, in linea e per giunta su un tracciato con grandi pendenze, avrebbe saputo restituire a Evenepoel il favore, difendendo quella maglia arcobaleno conquistata nel 2024 a Zurigo. E allora, dopo aver avuto un assaggio nei primi giorni della Côte de Kimihurura, tratta comune a tutte le gare e categorie, lunedì mattina decido di andare a dare un’occhiata al Kigali Wall (Mur de Kigali), la durissima ciottolata riservata all’élite maschile. Un mezzo chilometro di pavé irregolare, con una pendenza media dell’11% circa e un picco del 18%, ampiamente annunciato come punto più scenografico del percorso. E come probabile spartiacque, pur a un centinaio di chilometri dall’arrivo.
Lo raggiungo con un motorino che ho noleggiato proprio per girare il percorso, la città, le mille colline che la compongono e i suoi angoli più e meno frequentati. Lungo la strada incontro diversi corridori - inseguiti da giovani in bici, bambini che corrono lungo la strada, moto-taxi che ronzano intorno, fotografi a caccia di scatti memorabili - che sono in sella da quelle parti per allenarsi. Un po’ per l’altitudine, che cresce ai piedi del Mount Kigali, e un po’ per avere un’idea muscolare e aerobica di come sarà quel muro. Ed è come ci raccontavano avvicinandoci all’evento: l'inferno in terra. Persino in motorino, non oso immaginare con energia umana. Ci sarà da divertirsi, penso. Ci sarà da sopravvivere, pensano invece i ciclisti che assaggiano la pendenza.
Già che ci sono, prima di rientrare in città, ne approfitto per farmi un’idea di dove potrei appostarmi nel giorno di gara (ci torno più avanti), in cui è prevista grande affluenza su questa stretta salita. Torno al Convention Center in tempo per la cronometro della categoria Under 23 femminile, al debutto iridato, in cui l’Italia con Federica Venturelli conquista la prima medaglia di Kigali. Ma è al termine della settimana, con la prova in linea dell’Under 23 maschile (venerdì), che verrà il momento più azzurro del Mondiale.
«Siamo i genitori della medaglia d’oro!»
Se siete appassionati di ciclismo, o anche solo se avete aperto i notiziari o sfogliato qualche quotidiano nel weekend, avrete avuto notizia dello show di Lorenzo Finn. La giovane stella del team Red Bull si è confermata, come a Zurigo, in maglia arcobaleno, in back-to-back impressionante per tanti motivi; per come è maturato, in una gara stravinta, dominata, che ha lasciato un’altra volta la sensazione di essere davanti alla next big thing del ciclismo e dello sport italiano; e questo nonostante il salto di categoria da Juniores a Under 23, ed essendo a Kigali il più giovane atleta in gara, neanche diciannovenne.
Il momento più assurdo della "mia" Kigali:
— Andrea Lamperti (@a__lampe) September 26, 2025
mamma e papà di Lorenzo Finn, fresco di oro mondiale, aspetterebbero il figlio giù dal podio, ma non c'è verso di convincere la sicurezza (compagni di squadra inclusi) che siano i genitori.
Mistero vuole che credano a me, ed eccoci pic.twitter.com/6H5Z1m7MPA
Dopo il traguardo, Lorenzo è atteso dal consueto iter post-gara: premiazione, mixed zone, controllo della bici e dell’antidoping. Mi avvicino al palco per respirare un po’ della sua gioia, ma vengo incuriosito da quanto sta accadendo dietro al palco, lontano dalle telecamere e dallo sguardo del pubblico. Ad attirare il mio sguardo sono i gregari del team azzurro che, al posto di godersi i frutti dell’ottimo lavoro di squadra, stanno apparentemente discutendo con due addetti alla sicurezza, in un punto di accesso alla zona podio.
Mi avvicino e scopro il motivo del contendere: lì fuori, dietro le transenne, ci sono i genitori di Finn, che giurano agli steward di essere madre e padre del ragazzo che ha appena vinto la corsa, ma non hanno un badge a testimoniarlo. Anche se i corridori confermano, non c’è verso di convincerli. In qualche modo, e per qualche misterioso motivo (forse il timore di fare una brutta figura con un giornalista che potrebbe raccontare questa gaffe), il mio intervento li aiuta a entrare, avvicinarsi al podio e abbracciare finalmente il figlio. Un momento improbabile che ricorderò, e che racconta un po’ della ferrea (magari non sempre flessibile) organizzazione di Kigali 2025 dal punto di vista logistico. I blocchi del traffico, i varchi per il Convention Center, gli annunci ai residenti su base quotidiana e a reti unificate (via sms o WhatsApp), la chiusura di scuole, università e uffici hanno reso la settimana un meccanismo senza intoppi, e perfettamente godibile per gli addetti ai lavori e i tifosi giunti da ogni angolo del mondo. Oltre alla gente del posto, che ha approfittato della settimana di vacanza per riversarsi quotidianamente sul circuito. In totale, stando a quanto annunciato dall’UCI, un milione di persone circa.
L'ascesa al Mount Kigali
L’ultima giornata di gara e la sfida più attesa, quindi, sono finalmente giunte. Ho già le idee chiare: quando il gruppo farà il tratto extra, dopo il nono giro del solito circuito cittadino, mi farò trovare lungo il Kigali Wall per godermi il punto senza dubbio più spettacolare e decisivo del Mondiale 2025. Raggiungerlo in moto non è semplice, anzi: la chiusura di quasi tutte le strade che collegano il centro città a Nyamirambo - cioè il sobborgo che ospita la rampa in pavé - mi costringe a percorrere diversi chilometri su strade sterrate, in aree periferiche della città decisamente meno agiate. Una buona occasione per conoscere quel dark side di Kigali da cui le inquadrature televisive si tengono alla larga.
Arrivato sul posto, trovo una folla pazzesca in attesa dei corridori. Il mix di pathos, fatica palpabile sul volto e nelle pedalate degli atleti, eccitazione del pubblico e decibel non necessitano di didascalie. Le immagini si commentano da sole, così come lo strappo di Tadej Pogacar, che mi godo dal tetto di una piccola casa che si affaccia sulla strada. In esclusiva, grazie alla disponibilità del proprietario, che nei giorni prima mi aveva garantito quella postazione incredibile, invidiata anche dai fotografi ufficiali dell’evento.
Al fianco di Pogacar c’è Isaac Del Toro, Messico, che prova a seguire la fuga dello sloveno. La sua illusione dura poco, crollerà dopo pochi chilometri. Il passo di Pogi non è sostenibile per nessuno, neanche per Evenepoel, che dopo il ritorno sul circuito cittadino prova a ricucire lo strappo, ma non c’è niente da fare. Il migliore al mondo si sta confermando tale, e dopo un centinaio di chilometri in solitaria taglierà la linea del traguardo con un minuto e mezzo circa di vantaggio sul belga. Sul gradino più alto del podio, sotto lo sguardo del presidente Paul Kagame, sale dunque una delle stelle più luminose dello sport mondiale, e con il suo back-to-back cala il sipario su uno strano, bellissimo e controverso Mondiale. Il carrozzone dell’UCI tornerà tra dodici mesi in Canada, e quindi in Francia nel 2027, fino all’edizione 2031 appena annunciata in Trentino. Saranno altre grandi settimane di ciclismo, ma l’unicità dell’atmosfera qui in Rwanda sarà impossibile da replicare.














































































