
Il tortuoso iter del Mondiale di ciclismo verso il Rwanda Kigali 2025 ha dovuto attraversare criticità di ogni genere
"In tutti i paesi del mondo si possono trovare degli aspetti con margini di miglioramento", ha detto qualche mese fa il presidente dell'UCI (Union Cycliste Internationale) David Lappartient, in risposta all'insistenza dei media sull'assegnazione a Kigali, Rwanda, dei Mondiali 2025, i primi di sempre su suolo africano. "Ma quando guardo a dov'era il Rwanda in passato e dov'è oggi, vedo qualcosa di grande". Lappartient avrà anche ragione: nessuno stato è perfetto, e men che meno le democrazie occidentali che ambiscono a questa etichetta, mentre appoggiano apertamente il genocidio in atto a Gaza; ed è vero anche che quello di oggi non è più il Rwanda degli anni '90, cioè il teatro di alcune delle pagine più tragiche e sanguinose della storia contemporanea. Al netto di queste ovvietà, però, nelle parole di Lappartient si scorge la classica ricerca di un'impossibile neutralità, e anche un certo imbarazzo nel giustificare la controversa scelta della sede iridata.
Non si tratta solo di politica. Il malcontento generale che ha segnato la Road to Kigali 2025 ha anche risvolti competitivi, logistici e pratici, tra cui le complicazioni e i costi che una trasferta del genere ha portato in dote a tante delegazioni. Le critiche piovute negli ultimi mesi, insieme a qualche forfait illustre e ad alcuni team presenti a Kigali in formazione ridotta, affondano le radici in un vasto ventaglio di criticità, e hanno unito attori sportivi e politici. A tal punto che non più tardi di qualche mese fa, tra febbraio e marzo scorso, pareva addirittura possibile un trasloco last minute del Road World Championship verso la Svizzera.
Foto: Shalom Hozabarira
Insomma, se il tracciato che affronteranno Tadej Pogacar e compagnia si preannuncia come uno dei più impegnativi di sempre per il Mondiale, il percorso che ha portato l'evento a queste latitudini è stato una lunga, tortuosa e sfiancante corsa a tappe. Alla fine, però, Kigali 2025 ha resistito alle turbolenze, e dopo una resistenza a oltranza di fronte a proposte di boicottaggio di ogni tipo, ora l'UCI è sbarcata in Rwanda. Per un'edizione storica, iconica, e che si preannuncia spettacolare e particolarmente fotogenica, ma anche densa di incertezze e contraddizioni.
Tensioni politiche
Dal punto di vista socio-politico, il margine di miglioramento citato da Lappartient è piuttosto ampio. Guidato da oltre trent'anni da Paul Kagame, che nel 2024 ha vinto le elezioni con il 99% dei consensi (serve aggiungere altro?), il Rwanda è un paese con limitati standard democratici. Da anni Kigali si segnala nei report delle United Nations per il ristretto spazio civico, mentre NGO e osservatori internazionali come Freedom House e Human Rights Watch lo descrivono come stato not free. Le denunce più ricorrenti sono: arresti arbitrari, intimidazioni, sorveglianza dei media, sparizioni sospette di dissidenti all’estero, limitazioni alla libertà di espressione e associazione. Insomma, parecchi elementi che sfumano il confine tra democrazia e regime autoritario.
Appena al di là del confine occidentale del Rwanda, nel territorio della Repubblica Democratica del Congo (RDC), si sta consumando poi una drammatica crisi umanitaria, in cui Kigali è attivamente coinvolta. E, stando al governo di Kinshasa, largamente responsabile. Nonostante le numerose smentite del presidente Kagame, le pressioni della comunità internazionale e una serie di incontri - gli ultimi due a Doha e Washington - per placare le ostilità, la situazione nella regione del Kivu, lungo il confine tra Rwanda e RDC, è ancora oggi drammatica. E le violenze all'ordine del giorno sono sempre più inquietanti, con un numero di vittime civili che secondo i dati ACLED sono 2.500 circa negli ultimi due mesi e sfollati interni che sono l'ONU sono sette milioni. La maggior parte di tali violenze sono riconducibili alle milizie del gruppo ribelle M23, il cui legame con Kigali è ormai ben documentato.
Tunnel è la nuova newsletter settimanale di nss sports. Clicca qui per iscriverti.
La somma di tutti questi fattori - cui si possono aggiungere le tensioni con altri stati della regione come Uganda, Burundi e Mozambico - ha spinto tante delegazioni, atleti, sponsor e perfino l'Unione Europea a fare formalmente richiesta di revocare l'assegnazione. E ha portato a Kigali quell'etichetta di sportwashing che spesso nell'ultimo decennio abbiamo visto accostare a maxi-eventi del genere in destinazioni politicamente controverse. Allo stesso tempo quando si parla della presenza nel circuito di Israel-Premier Tech, però, si preferisce usare un più accondiscendente sport diplomacy.
Kigali si muove sulla scia, ormai nota, di altre realtà avvezze a questa pratica, ad esempio quelle del Golfo Persico. Uno schema in cui rientrano alcune recenti sponsorship patrocinate dal governo, ad esempio il Visit Rwanda sulle maglie da calcio di Arsenal e Bayern Monaco, oppure le sinergie con BAL ovvero la lega africana della NBA e IRONMAN 70.3 per il triathlon. E poi, le candidature ad altri eventi sportivi di appeal globale, con l’idea di usare l'UCI Road World Championship come apripista per attrarre un Gran Premio di Formula 1.
Logistica complicata
Portare un Mondiale così fuori rotta, poi, significa moltiplicare gli incastri. Kigali è lontana in senso geografico e logistico, con magazzini, hub e officine mobili del mondo ciclistico che di solito si muovono in questo periodo sulla cartina europea. La trasferta africana ha imposto itinerari a due o tre scali, slot ristretti per i voli con attrezzature e una gestione complessa degli extra-bagagli più ingombranti: bici, ruote, rulli, materiali per le cronometro, e via dicendo. A terra, la pressione sugli hotel di gara ha alzato i listini e compresso le opzioni per corridori, staff e soprattutto, purtroppo, atleti juniores. Diverse federazioni hanno infatti tagliato le selezioni giovanili e ridotto i programmi a cronometro. Per fortuna non l’Italia, presente a Kigali a pieno regime nelle squadre élite e giovanili, nonostante la denuncia del GM Roberto Amadio, che non ha risparmiato UCI e comitato organizzativo da aspre critiche legati alla gestione dei costi.
Poi c'è il capitolo sicurezza, inevitabile alla luce di ciò che accade oltre il confine con la RDC. Nei mesi scorsi, tra escalation e polemiche, qualcuno ha preferito rinunciare a una trasferta in una regione dove tensioni e violenze sono la regola, anche se non nell'area adiacente a Kigali. Da parte sua l’UCI ha tenuto il punto, ribadendo la sicurezza della capitale, mentre le autorità locali hanno garantito un massiccio dispiego di forze dell'ordine, con dispositivi, percorsi e presidi dedicati.
Sul piano sportivo, i problemi di prezzi e logistici hanno prodotto una griglia di partenza meno piena del solito. Mancano un po' di nomi pesanti, sia tra gli uomini sia tra le donne, e in alcuni Paesi non vedremo intere fasce. È un peccato, ma più per chi resta a casa che per Kigali. Non vedremo, ad esempio, Mathieu van der Poel (iridato 2023), Wout van Aert e Jonas Vingegaard, tutti fuori dalla prova in linea maschile; nel femminile, non ci sarà la campionessa in carica Lotte Kopecky, mentre la Gran Bretagna ha scelto di rinunciare del tutto alla squadra élite donne in linea. E oltre ai nomi, pesano i tagli di intere categorie, come nei casi di Danimarca e Paesi Bassi che hanno azzerato juniores e U23.
Altre controversie
Accanto ai dossier politici e ai disagi pratici, c’è poi un pacchetto di temi tecnici che hanno fatto discutere. Il debutto dei GPS obbligatori è il più visibile: un cambio di filosofia, la sicurezza come priorità, ma anche un banco di prova per reti e regia tecnica, che probabilmente l'UCI avrebbe preferito svolgere altrove. Kigali offre una copertura mobile ampia, tuttavia l’affidabilità dovrà essere impeccabile nei momenti di massima sollecitazione tra pioggia, vento e zone d’ombra.
Si continua con il dibattito su salute e prevenzione. Ai tempi dell’assegnazione circolavano paure su obblighi vaccinali generalizzati, ma in realtà in Rwanda la febbre gialla è richiesta solo a chi arriva da aree endemiche, mentre tutto il resto - malaria, tifo, cautele igieniche e alimentari - rientra negli standard per chi viaggia in Africa subsahariana. Più concreto, semmai, il discorso relativo al clima: Kigali si trova a circa 1.500 metri, fine settembre è la soglia delle short rains: possibili scrosci improvvisi, con umidità in aumento e asfalti vischiosi su rampe e ciottolati. Stando alle ultime indicazioni, però, a Kigali pare esserci all'orizzonte una settimana di stabilità meteorologica.
Sulla governance locale, infine, ha pesato lo scandalo legato a Benoit Munyankindi, tornato d'attualità sui media internazionali negli ultimi mesi. La vicenda risale al 2023, quando una serie di indagini interne su trasparenza dei costi e abusi dei poteri d'ufficio portò all’arresto dell’allora segretario generale della FERWACY, la federazione ciclista del Rwanda, e all'uscita di scena del presidente. Un precedente che ha sollevato scomodi interrogativi sull’affidabilità degli organizzatori.
Insomma, c’è un rovescio della medaglia alle immagini spettacolari vi giungeranno dal Rwanda e alle imprese sportive che riempiranno i titoli dei giornali. Di certo c'è un po’ di quel solito, ingombrante pregiudizio tipico dell’eurocentrismo sportivo nelle critiche che hanno sommerso Kigali 2025; ma c’è anche del vero, ovviamente, ed è una parte che non possiamo liquidare come ha fatto, goffamente, David Lappartient. Perchè se è vero che lo sport non deve essere un’esclusiva occidentale, è altrettanto vero che i diritti umani non sono un margine di miglioramento.
























































