
La crociata dello sport francese contro l’hijab La discriminazione, vestita da neutralità, attacca i principi inclusivi dello sport
Dopo il feroce dibattito che aveva preceduto e accompagnato i Giochi Olimpici di Parigi 2024, in Francia la presenza dell’hijab nello sport femminile continua ad alimentare un acceso scontro politico e culturale. Se negli ultimi due anni la spaccatura si era consumata con audience globale, intorno al divieto di indossare il velo imposto alle atlete olimpiche nazionali, oggi la contesa è tornata nella sfera domestica, ma sugli stessi binari. Da un lato chi, in nome della laicité, invoca e persegue restrizioni contro i cosiddetti segni religiosi ostentatori; dall’altro un fronte sempre più ampio che rivendica l’inclusività come principio fondante dello sport e denuncia una politica discriminatoria che colpisce soprattutto le atlete musulmane.
Unicum francese
Nei prossimi mesi l’Assemblée Nationale discuterà la proposta di legge Savin n. 993 per trasformare in norma statale i divieti già introdotti da varie federazioni, e dare quindi un altro giro di vite a un sistema già restrittivo. Il disegno infatti affonda le radici in vent’anni di divieti: dalla legge del 2004 che ha vietato i segni religiosi vistosi nelle scuole, allo statuto della federcalcio che nel 2015 ha bandito qualsiasi simbolo in campo, fino alla sentenza del Consiglio di Stato che nel 2023 ha confermato l’applicabilità nel calcio femminile. "La Francia oggi è l’unica democrazia europea che bandisce sistematicamente l’hijab dai campionati nazionali", sottolinea Slim Ben Achour, avvocato specializzato in diritto antidiscriminatorio e libertà fondamentali. "Nella maggior parte dei Paesi vicini le federazioni autorizzano l’uso dell’hijab; penso alla Germania, alla Spagna, al Regno Unito" - e se ne potrebbero citare tanti altri, considerando che la Francia è stata nel 2024 l’unica delegazione olimpica, su oltre duecento in totale, a imporre un ban del genere.
La discrepanza emerge guardando ai regolamenti di gara degli altri Paesi, ma anche alle disposizioni in materia di abbigliamento ed equipaggiamento emanate dal Comitato Olimpico e da enti transnazionali come FIFA e IFAB che hanno aperto all’hijab nel 2014, la FIBA per il basket ha fatto lo stesso nel 2017 così come World Athletics per l'atletica nel 2012 e l'UCI per il ciclismo nel 2018. Il velo è ammesso nelle competizioni praticamente ovunque, e contestualmente i grandi brand del settore hanno lanciato nell’ultimo decennio le proprie linee e campagne dedicate; dal Pro Hijab di Nike alle linee di adidas e Under Armour, passando per i costumi integrali Speedo nel nuoto, le wetsuit full-coverage di Rip Curl nel surf e i completi Patagonia per climber velate che competono nell'arrampicata. In Francia invece la stretta continua, e come sottolinea Ben Achour si tratta di "un’eccezione che rischia di tenere a lungo le giovani donne musulmane lontane dalle competizioni, creando una discriminazione sistemica".
Le posizioni anti-hijab
Il caso più recente in Franciaa riguarda la pallavolo, in cui dall’inizio della stagione 2024/25 la FFVolley ha applicato il veto in ogni categoria, inserendosi in un mosaico che già comprendeva calcio, basket e rugby. E così atletica e pallamano sono rimasti gli unici sport olimpici senza una normativa in tal senso, ma ogni differenza tra federazioni è destinata ad essere appianata nel caso in cui la proposta Savin diventi legge. Il testo è stato approvato dal Senato lo scorso febbraio e trasmesso quindi alla Commission des Affaires culturelles, in attesa della discussione in autunno e della possibile entrata in vigore nel 2026.
Il provvedimento è caldeggiato dal partito di estrema destra Rassemblement National e gode del sostegno della maggioranza presidenziale Renaissance e dei Repubblicani: un blocco compatto che rende probabile l’approvazione finale. L’appoggio peraltro non si limita ad aule e palazzi, ma comprende anche l’elettorato: secondo un sondaggio dell’istituto CSA realizzato per CNews, Europe 1 e Le Journal du Dimanche, il divieto all’utilizzo dell’hijab sportivo è condiviso dal 73% della popolazione, con punte oltre il 90% tra gli over-65, nell’elettorato di destra ed estrema destra, e con un consenso maggioritario anche al centro. Più che ideologica, però, la frattura è generazionale, come certifica il calo drastico del consenso fra gli under-25 (46%).
La ministra per lo Sport Marie Barsacq e la ministra per Solidarietà e Famiglie Aurore Bergé negli ultimi mesi hanno tentato di smussare gli attriti, invitando le parti in causa ad evitare gli amalgami ma senza deviare la linea dell’esecutivo, e ribadendo in più occasioni la necessaria neutralità del campo sportivo. Quella che viene definita come un’imparzialità laica, però, è rivendicata gomito a gomito con chi, dai banchi dell’estrema destra, non esita a cavalcare slogan di intolleranza come "À bas le voile" (“Abbasso il velo!”). Lo stesso relatore della proposta, il senatore Michel Savin, ha definito l’hijab come "cavallo di Troia dell’islam politico", invocando "un voto rapido per porre fine ad ogni ambiguità".
Reazioni
L’opposizione risponde accusando il governo di islamofobia e di interpretare in modo fazioso il concetto di laicité. "Perché volete impedire alle donne velate di praticare sport in spregio ad ogni convenzione internazionale?", ha chiesto il deputato François Piquemal. Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano NGO come Human Rights Watch e Amnesty International, con quest’ultima che ha descritto il disegno di legge "una barriera d’accesso allo sport per migliaia di donne musulmane e una misura discriminatoria che alimenta il razzismo". Poi c’è la Ligue des Droits de l’Homme, che ha sventolato un carton rouge al testo Savin, e al loro fianco Les Hijabeuses, un collettivo di calciatrici nato per contestare il bando FFF, Basket Pour Toutes, ovvero una rete di squadre dilettantistiche, e realtà della società civile come SOS Racisme, Alliance Citoyenne, Collectif contre l’islamophobie en Europe oltre ad un gruppo di Special Rapporteurs dell’ONU sull’uguaglianza di genere e la libertà di religione.
Sul terreno giudiziario l’offensiva è già partita: il collettivo Les Hijabeuses ha depositato alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo un ricorso che da Strasburgo è stato dichiarato ricevibile lo scorso 25 marzo. La sentenza non verrà emessa prima del 2026, ma potrebbe obbligare il governo a rimettere mano al bando nazionale. Nel frattempo, un pool di avvocati sta preparando "il doppio binario di resistenza legale", cioè una questione di costituzionalità da presentare al Conseil Constitutionnel non appena la legge Savin dovesse entrare in vigore.
Il caso Sounkamba Sylla
Nella sfera agonistica, in prima linea c’è la cestista Salimata Sylla, espulsa due anni fa da un match di Nationale 3 per il foulard che indossava come copricapo. "Lo sport è uno strumento di emancipazione, nessuno può dirci come vestirci. Non volete includerci? E allora ci includeremo da sole", ha commentato a margine di uno dei tornei autogestiti del circuito Ball Her che organizza per ragazze velate e non. Accanto a lei corre Sounkamba Sylla, quattrocentista costretta alla vigilia dei Giochi Olimpici a rinunciare all’hijab e presentarsi con un cappellino.
La foto di Sounkamba Sylla nella cerimonia inaugurale di Parigi, con cappellino in testa e hijab in tasca, è diventata il simbolo di un‘imparzialità che esclude, discrimina e, inevitabilmente, scoraggia. Lo conferma la sociologa Haifa Tlili, fondatrice di Basket Pour Toutes: nel suo dossier redatto prima dei Giochi sono riportate 150 testimonianze di umiliazione, trauma e abbandono dello sport in seguito al divieto: "La sola paura di essere umiliate allontana tante ragazze prima di iscriversi”, avverte, “e questa nuova legge è pensata per trasformare la paura in regola".
In occasione dei Giochi, infine, si sono esposti tanti volti dello sport mondiale: la beach-volleista egiziana Doaa Elghobashy, la maratoneta olandese Sifan Hassan, la runner egiziano-emiratina Manal Rostom e la schermitrice statunitense Ibtihaj Muhammad. A loro si è unito anche l’ex calciatore turco-tedesco Mesut Ozil, che sul proprio profilo X ha scritto: "Lo sport dovrebbe unire, non dividere per ciò che una persona decide di indossare. Lasciate giocare queste donne".
Tutto converge nell’hashtag #MonHijabMonSport, e la battaglia non si fermerà al verdetto dell’Assemblée dei prossimi mesi. Proseguirà nei tribunali, nei tornei autogestiti di periferia, e su qualunque terreno di gioco in cui l’hijab è oggetto di restrizioni. Ad un evento organizzato nel giugno 2024 dalle Hijabeuses, giusto prima dell’inizio dei Giochi, le organizzatrici hanno ricordato lo scopo comune di queste azioni: "La nostra battaglia non riguarda un semplice pezzo di stoffa, ma la libertà di giocare e di non essere discriminate".