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Quali brand possono imparare dal successo del surf anni 2000?

Le community prima delle community

Quali brand possono imparare dal successo del surf anni 2000? Le community prima delle community

Billabong, Volcom, Quiksilver, Rip Curl. Forse è proprio tra questi brand che si cela la risposta a una delle domande più pressanti per molti marchi oggi: la ricerca — spesso forzata — di un’autenticità. 

L’estate, almeno qui in Italia, si avvicina. E in mezzo al marasma di costumi da bagno che si fermano a metà coscia, continuano a scomparire quelli che dominavano le spiagge degli anni Duemila: lunghi ben oltre il ginocchio, con il pettine per la paraffina infilato nella tasca e grafiche impossibili da ignorare. È la storia di un’estetica, di un’identità, che ha scritto un capitolo fondamentale del surfwear mondiale. Ma qual era la forza di questi brand? Qual è il percorso che li ha condotti a un inesorabile declino? E in che modo, oggi, il loro modello di business potrebbe essere ripreso e magari rimodulato?

Il surfwear ci ha insegnato che l’identità autentica nasce solo da chi vive realmente una cultura. Oggi, attività come il running sembra voler imparare quella lezione, ma occorre ripercorrere degli step prima di arrivare al dunque. 

Storia e DNA dei brand del surfwear

Innanzitutto, il punto di forza di quei brand stava nell’essere fondati e guidati da persone che vivevano in prima persona lo sport e il lifestyle legato a quello sport a 360 gradi. Nel caso di Quiksilver, ad esempio, parliamo della classica favola imprenditoriale: Alan Green, nel 1968, avvia l’attività nel garage di casa, iniziando a produrre tute da surf. Un percorso simile a quello di Rip Curl, fondata nel 1969 da due surfisti australiani, Doug Warbrick e Brian Singer. Volcom, invece, nasce con una visione leggermente diversa: fondata nel 1991 da Richard Woolcott e Tucker Hall, punta sin da subito su un’identità più trasversale, rifiutando la settorializzazione e restando un punto di riferimento per skateboarding, snowboarding e surf, seguendo le passioni dei suoi fondatori, nonché gli sport su tavola. 

Non è un caso che la wave che diede origine alla maggior parte di questi brand risalga alla fine degli anni Sessanta – un periodo cruciale per il movimento hippie, che nella sua essenza rifiutava istituzioni, norme e convenzioni della società consumistica. E allora, quale sport più del surf — estremo, libero, vissuto su una tavola — poteva incarnare questo spirito anticonformista? Quale disciplina, meglio del surf, poteva fondersi con il lifestyle di chi lo praticava non per competizione, ma come forma di escapismo e ribellione?

Sono due i principali aspetti propri del surf e degli sport da tavola ad essere stati a lungo romanticizzati e giustamente valorizzati nella pop culture, specialmente tra gli anni Novanta e Duemila: la forza comunitaria e quella della connessione con la natura. Film come Lords of Dogtown e Step Into Liquid, grazie alla visione di Stacy Peralta, hanno esaltato rispettivamente questi due elementi. Se il secondo aspetto — un po’ hippie ma ancora attuale — continua a essere evocato, è soprattutto il primo, quello della community, che molti brand stanno cercando oggi di riscoprire e valorizzare.

Il running come il surf?

Insomma, alcuni stilemi del surf sembrano essere tornati in auge per diversi brand, soprattutto quelli legati al mondo del running. In questo ambito, infatti, la community — intesa come senso di appartenenza e aggregazione — è un elemento fondamentale da includere nella propria narrazione per esprimere e valorizzare la propria identità. Un aspetto che spesso manca nella comunicazione di molti altri sport, i quali puntano su asset differenti, comunque validi, ma che cercano in vari modi di costruirsi una propria community.

Quante volte abbiamo sentito espressioni come "fare community"? Ma cosa significa davvero? Significa costruire un pubblico in modo organico, capace di sviluppare un reale senso di appartenenza, proprio come nel surf, che da sempre vanta questa qualità, soprattutto nella sua dimensione amatoriale, ben prima dei confini dell’agonismo. 

Dire che il running sia molto diverso dal surf, poi, al di là dell’aspetto comunitario, non è neanche così vero. Le somiglianze sono molte: la narrazione del runner si sta progressivamente avvicinando a quella del surfista, con buona pace dei più conservatori. Pur mantenendo un’estetica chiaramente distinta, i runner e i running club amatoriali sanno esprimere a modo loro un’attitudine punk. Un’attitudine che spesso trascende il salutismo: dopo una community run non può mancare un’IPA nel bar di fiducia. E sono proprio gli amatori, prima ancora dei professionisti, a dare forza a questo spirito, a comunicare l'essenza del running, che da attività fisica si sta trasformando in un vero e proprio movimento, apprezzato anche perché riesce a rendere libero (e punk) uno sport che, convenzionalmente, fino a qualche anno fa sembrava regolato da norme piuttosto rigide. 

Il declino dei brand surfwear negli anni Duemila

Il declino dei brand appartenenti al settore surfwear inizia nel momento in cui sono diventati corporate: Volcom, ad esempio, si trasforma in Volcom Inc. nel 2005, viene acquisita da Kering nel 2012 e successivamente da Authentic Brands Group nel 2019. In questo passaggio, è inevitabile che parte della loro identità e autenticità venga sacrificata, che buonissima parte dell'appeal estetico viene smarrito del tutto.

Nonostante ciò, brand come Volcom, continuarono a digitalizzare il sentimento della community. Il brand fondato da Woolcott e Hal lancia Volcomunity, uno spazio digitale dedicato agli ambassador del brand — cantanti, modelle e designer — dove raccontano le loro vite attraverso un blog. Natalie Suarez, Jennifer Herrema, Billie Edwards, Elle Green, Mike Correia, Stephanie Cherry, Amy Smith, Zoe Grisedale-Sherry e Hannah Logic sono solo alcuni di loro. Ed è proprio con la digitalizzazione che emerge un altro aspetto che ha contribuito alla perdita di appeal di questi brand: il cambiamento radicale nel modo in cui viene narrata la figura dell’atleta. Con la scomparsa e l’irrilevanza delle riviste indipendenti di settore, la Gen Z ha perso punti di riferimento e, di conseguenza, il desiderio di indossare quei brand.

Se da un lato, a livello stilistico, si può provare nostalgia per le vecchie proporzioni dei capi — come i costumi da bagno, che oggi non esistono più nella stessa forma —, dall’altro anche i brand, pur essendo gestiti da grandi fondi del lusso, riescono a reinterpretare quei codici: magari accorciando i pantaloni di qualche centimetro sopra il ginocchio o tagliandoli a filo rotula. I tratti distintivi che li avevano resi speciali nel panorama dello sportswear che si faceva lifestyle restano, in parte, riconoscibili. Ma ciò che più resiste è il senso di unione e appartenenza: un valore che oggi i brand si impegnano a riportare al centro.

Da Hoka a On, passando per Satisfy — fondata da Brice Partouche — i brand del running (e dell’outdoor in generale) possiedono una forza che non devono mai perdere, se vogliono evitare di snaturarsi: la conoscenza profonda della vera essenza del lifestyle a cui appartengono.