
Cosa ci hanno raccontato gli NBA China Games 2025 E perché è stato un evento sportivo e politico così importante
Shaquille O’Neal, Yao Ming, Jackie Chan. A quale partita di basket potreste mai trovare un terzetto del genere in prima fila? Unica risposta possibile: le NBA China Games, che dopo sei anni di controversa assenza sono tornati alla Venetian Arena di Macao, questo fine settimana. Con il solito formato delle global games della lega: trasferta di cinque-sei giorni con eventi e spazi allestiti in città, due partite in quarantotto ore, e intorno una pletora di celebrità e attivazioni commerciali. L’appello infatti prosegue con altri volti noti al pubblico locale: Jeremy Lin (ex giocatore NBA), Jack Ma (fondatore di Alibaba), Allen Xie (manager di adidas Basketball), influencer con numeri inimmaginabili su Weibo e Douyin; ma anche con stelle NBA degli anni 2000: Dwyane Wade, Vince Carter, Andre Iguodala, Stephon Marbury e Shawn Marion, chi in vesti istituzionali e chi da ambasciatore. E perché no, anche David Beckham, che in Asia non guasta mai in un parterre VIP del genere.
Per dovere di cronaca c’è anzitutto l’aspetto sportivo. La relativa importanza delle sfide - siamo in preseason, gare di esibizione - ha lasciato spazio comunque a uno spettacolo godibile. Phoenix Suns contro Brooklyn Nets: venerdì hanno vinto i primi in rimonta dopo tempi supplementari (132-127), ieri invece i secondi in un’altra volata punto-a-punto (111-109). Buone notizie sia per i destinatari dello show, cioè i tifosi cinesi, che hanno risposto con entusiasmo al ritorno della lega nel paese; sia per i mittenti della tournée, in primis Adam Silver - commissioner NBA, in missione per la sua espansione globale - e Joseph Tsai - owner dei Nets, co-founder di Alibaba e mediatore più o meno dichiarato dell’asse NBA-Cina. Il riscontro del campo è però la cosa meno interessante di questo viaggio d’affari, che ha rappresentato una storica riconciliazione sportiva, politica e commerciale. In un luogo, l’ex colonia portoghese Macao, che può suonare improbabile, esotico, ma che non lo è affatto.
Normalizzazione
Il primo viaggio dell’NBA verso oriente risale al 1979, quando ancora doveva essere sfondato ogni muro. Prima politico e poi commerciale, con la trasmissione televisiva delle partite (a titolo gratuito, senza pagare i diritti) che sarebbe iniziata a fine anni Ottanta e la passione per il basket che avrebbe cominciato a contagiare seriamente le giovani generazioni verso fine anni ‘90. Ma è con il nuovo millennio - non per caso dopo lo sbarco di Yao Ming, ex stella degli Houston Rockets e oggi presidente della federbasket cinese - che l’NBA è diventata un fenomeno di massa in Cina. E la visita di inizio stagione, routine. Dal 2004 al 2019 nella Repubblica Popolare sono passate 18 squadre e 27 partite, distribuite tra Shanghai, Pechino, Taiwan, Guangzhou, Shenzhen e Macao. E sono passati anche tantissimi tour di campioni NBA, ad esempio Kobe Bryant, Tracy McGrady e Allen Iverson, e più avanti Steph Curry, LeBron James e James Harden. Scortati dai rispettivi brand e accolti da folle adoranti.
Non c’è voluto molto, una volta ingranate le marce alte, perché la Cina diventasse il primo mercato estero del basket americano. D’altronde il debutto di Yao Ming in maglia Rockets, la sua prima sfida contro Shaq e il derby con Yi Jianlian del 2007 hanno incollato agli schermi cinesi 150-200 milioni di persone: numeri proibitivi negli Stati Uniti pure per il SuperBowl. A Pechino il basket è diventato rapidamente lo sport più seguito e praticato - oggi si parla di 300 milioni di appassionati, l’85% dell’intera popolazione USA - e l’NBA è il fulcro di tutto ciò. Un sondaggio di qualche anno fa aveva evidenziato che più dell’80% dei maschi di età 15-24 si dichiarava interessato all’NBA, facendone la lega più seguita nel paese, con ampio distacco su competizioni locali e calcio europeo. Un business da 5 miliardi di dollari all’anno che nel 2019, però, ha conosciuto una brusca battuta d’arresto.
La crisi, con interruzione totale dei rapporti, si è innescata con un tweet di sei anni fa firmato Daryl Morey, ex general manager di Houston, oggi a Philadelphia. Una manciata di righe in cui si dichiarava a sostegno delle proteste in atto a Hong Kong contro il governo cinese: una voce che non poteva essere sconfessata dall’NBA (più per coerenza che per valori), ma che avrebbe creato un gigantesco danno economico. Perché la reazione del Partito Comunista Cinese fu durissima: ritiro degli accordi commerciali, della trasmissione in tv, di ogni visibilità garantita al prodotto cestistico americano nel mercato orientale. Un buco stimato da Adam Silver intorno ai 400 milioni di dollari all’anno, perdurato durante gli anni pandemici e progressivamente allentato dal 2022 in avanti, con la ripresa della trasmissione delle partite, dei programmi giovanili sul territorio e, infine, con il ritorno - sportivo e diplomatico - delle NBA China Games di questo fine settimana.
Ambasciatori
Che l’NBA fosse prepotentemente tornata a queste latitudini si è reso evidente negli ultimi mesi, in cui diversi giocatori hanno organizzato tour ed eventi nelle città cinesi. Riprendendo un discorso indebolito negli ultimi sei anni, ma mai del tutto interrotto. Tra gli altri si sono visti i soliti LeBron e Curry, ma anche Draymond Green, Jalen Williams, Giannis Antetokounmpo (che da queste parti chiamano Letters Bro, per la lunghezza del nome), Nikola Jokic, Aaron Gordon, Paul George, James Harden e Kyrie Irving. E così si è spianato il terreno per il ritorno nel circuito sempre più vasto delle global games” che tra ottobre 2025 e gennaio 2026 ha fermate previste anche ad Abu Dhabi, Melbourne, Vancouver, Città del Messico, Berlino e Londra.
Poco sorprendentemente i protagonisti della trasferta sono stati i Brooklyn Nets, punto di contatto tra Joseph Tsai (e quindi Alibaba, colosso dell'economia cinese) e NBA. In questi anni il proprietario della franchigia newyorkese è stato in prima fila per favorire lo smaltimento degli attriti e la riapertura di un canale in cui confluiscono gli interessi non soltanto suoi, ma di tanti owner NBA. La sua Alibaba Cloud è appena diventata partner ufficiale della lega, ma è solo una goccia nell’oceano. Secondo un report di ESPN del 2022, infatti, le proprietà americane gestivano asset per 10 miliardi di dollari circa nel mercato cinese: una montagna di buoni motivi, insieme ai dati commerciali e televisivi di cui si è detto, per dimenticare le tensioni politiche, il caso Morey e tutte le sacrosante osservazioni sulla libertà d’espressione che porta in dote. Mettersi tutto alle spalle e tornare a collaborare.
Il processo è ripreso due con il ritorno degli sponsor nell’universo americano e con il ripristino del contratto con il broadcaster Tencent, subentrato nel 2015 a CCTV e proprietario dei diritti NBA fino al 2027. Nel frattempo, la lega ha colto l’occasione del viaggio a Macao per una vasta gamma di inaugurazioni, strette di mano e attivazioni. Dal nuovo NBA (Flagship) Store aperto al Londoner Macao, all’NBA House allestita all’interno del Venetian Macao Hall, con spazi dedicati ai partner (Nike, Mitchell & Ness, New Era, Wilson e via dicendo). Nella giornata di mezzo tra le due partite, poi, si è esportata un po’ di All-Star Game culture con il Fan Day by Alibaba Cloud, in cui celebrità locali - del basket e non solo - hanno preso parte a una serie di attività e contest sul campo della Venetian Arena. Inclusa la classica gara di schiacchiate, la comparsa di China Book (il sosia cinese di Devin Booker, al suo fianco) e l’annuncio di una sinergia con la Chinese Basketball Association che aprirà ai talenti cinesi più promettenti nuove porte d’accesso per i programmi giovanili promossi da NBA.
Macao e l'NBA
Una riflessione, infine, sulla location di tutto ciò. Qual è il punto di contatto tra l’NBA e Macao, e perché si è ripartiti da qui? Innanzitutto è stato un rientro cauto, in un luogo definito da molti come soft landing, senza buttarsi subito su piazze come Pechino o Shanghai. Macao è una Regione Amministrativa Speciale, come Hong Kong, ma con un tessuto identitario ed economico molto diverso. E, soprattutto, è l’unico posto in Cina dove il gioco d’azzardo è legale. Qui l’economia ruota in larga parte attorno ai casinò, con volumi di ricavi che negli ultimi anni sono tornati a superare di gran lunga quelli della Strip di Las Vegas. È un po’ lo stesso discorso degli ascolti TV, in cui le proporzioni demografiche della Cina spiegano il perché.
Le partite si sono giocate alla Venetian Arena, all’interno di un complesso che comprende anche un casinò e un resort di proprietà Sands China. Ovvero, la branca locale del gruppo Las Vegas Sands, controllato dalla famiglia Adelson-Dumont, che è anche ai vertici dei Dallas Mavericks (e di cui avevamo parlato qualche mese fa). Insomma, Macao non è solo ai margini dell’impero: è la capitale asiatica del gambling, un settore con legami sempre più profondi con l’universo NBA; ed è un hub autonomo che può parlare senza troppi imbarazzi lo stesso linguaggio commerciale di Adam Silver. Lo sfondo ideale per un discorso politicamente delicato ed economicamente mastodontico.





















































