
La FIFA sta pensando a una Coppa del Mondo XXL Perché 48 nazionali non erano sufficienti
Mandato in archivio il Mondiale per Club, è già partito il countdown che ci porterà ai Mondiali del 2026, in cui debutterà il formato espanso a 48 squadre ma all’interno della FIFA c’è già chi pensa a un ulteriore allargamento. Come segnalato inizialmente dal quotidiano spagnolo As, durante un recente meeting della federcalcio mondiale, a Zurigo, un membro del Consiglio avrebbe proposto l’apertura di altri sedici slot per la Coppa del Mondo 2030. Secondo quanto riportato successivamente dal New York Times si tratta di Ignacio Alonso, presidente della federazione uruguaiana, che avrebbe suggerito il passaggio a un formato con 64 nazionali. L’idea è stata discussa preliminarmente nell’ultimo punto, "varie ed eventuali", dell’ordine del giorno previsto dal FIFA Council del 5 marzo scorso. Ad ora non è trapelato molto, al di fuori delle proporzioni della possibile espansione, che lascia comunque una serie di domande sullo sfondo; in primis, come sarebbero distribuiti i posti extra, tema storicamente spinoso, e in che modo verrebbero ridisegnate le qualificazioni, soprattutto nei continenti con meno federazioni, il tabellone finale con un minimo di 128 partite e in generale le dimensioni dell’evento, che a quel punto durerebbe almeno un mese e mezzo.
Un portavoce della FIFA ha formalizzato l’accettazione del presidente Gianni Infantino a "prendere in esame una nuova proposta", come previsto dal regolamento del Consiglio, tenuto ad approfondire ogni internal proposal esposta in assemblea. "Ogni idea è una buona idea" ha successivamente aggiunto lo scorso maggio Gianni Infantino. Nel frattempo i contorni del dibattito sono già ben delineati. Ovvero, le implicazioni per ogni attore coinvolto, direttamente e indirettamente, e il sentimento intercettato dalla possibile espansione. L’idea di Ignacio Alonso galleggia infatti in un mare di tornei passati da L a XL, e poi XXL; al fianco di altri appena inaugurati, magari con trasferte intercontinentali, a saturare i pochi vuoti nel calendario. Per la gioia, si fa per dire, degli addetti ai lavori. Che si tratti di club o nazionali, di UEFA o FIFA (in questo caso specifico un “o” molto ingombrante), ormai conosciamo perimetro, logiche e fazioni del dibattito. Si gioca e si viaggia sempre di più, ogni giorno c’è qualcuno che se ne lamenta, e comunque ogni stagione ha un calendario più fitto di quella precedente. Un equilibrio delicato e insostenibile, in cui la Coppa del Mondo c’entra fino a un certo punto, ma che l’evento più importante in assoluto espone, inevitabilmente, all’audience globale.
Storia del formato dei Mondiali
L’era del Mondiale a 16 squadre è durata più o meno dalla nascita del torneo sino agli anni ‘80. La successiva, il formato a 24, è resistita fino a Francia ‘98, e da allora ci sono state sette edizioni con 32 partecipanti. Se la proposta di allargamento dovesse essere accolta, dopo un solo giro a 48 o comunque nel breve periodo, si tratterebbe di un’escalation senza precedenti per la competizione regina dell’universo FIFA. Ed evitando di girarci intorno, 64 nazionali - quasi un terzo di tutte quelle iscritte al ranking mondiale - sono davvero uno sproposito. Solo due anni e mezzo fa, in Qatar, erano la metà. E negli almanacchi del torneo, in un intero secolo di storia, si trovano appena 80 bandiere diverse - non molte più delle 64 proposte per il solo 2030.
Una simile riforma, comunque, non sarebbe uno shock per il pubblico, suo malgrado abituato a vedere l’esclusività e la tradizione sacrificate sull’altare dei ricavi. I calendari del calcio internazionale - soprattutto quelli dei top club europei che fanno strada in più competizioni e delle rispettive stelle impegnate anche in nazionale - ormai somigliano a un reality show di 365 giorni l’anno. E pure con la Coppa del Mondo ogni consuetudine è stata scardinata: prima l’edizione invernale in Qatar, nel 2034 l'edizione in Arabia Saudita, e di mezzo la tripla sede del 2026 dato che si giocherà negli stadi di Stati Uniti, Canada e Messico, peraltro in un momento storico non ideale. Poi lo show itinerante per il centenario dato che nel 2030 si passerà addirittura a tre continenti e sei Paesi diversi, con un inedito preludio celebrativo in Uruguay, Argentina e Paraguay, e a seguire il resto del torneo in Spagna, Portogallo e Marocco. Anche le distanze, insomma, sono diventate extra-large.
Non sorprende che la proposta di accogliere più squadre giunga proprio da Montevideo, dal ventre dell’organizzazione dell'edizione 2030. La federazione uruguaiana ha un ovvio interesse ad ingigantire la parte iniziale dell’evento, e in linea di principio l’idea dovrebbe essere gradita a Claudio Tapia (Argentina) e Robert Harrison (Paraguay), ma non ad Alejandro Dominguez, presidente e rappresentante della CONMEBOL, la federcalcio sudamericana. Tre o quattro slot aggiuntivi, infatti, farebbero rimanere poco o niente delle qualificazioni regionali al Mondiale 2030, lasciando ad ogni federazione un vuoto da 15-20 partite e relativi incassi nell’arco dei prossimi tre anni e mezzo. Una carenza difficilmente colmabile dai pur abbondanti incentivi messi sul tavolo dalla FIFA.
Pro e contro
Il disallineamento del mondo latino è solo una parte di una scena calcistica globale altrettanto frammentata. Lo spettro ideologico delle federazioni è definito ovviamente da pro e contro, che cambiano secondo lo status e le latitudini. Da una parte ci sono i mercati ai confini dell’impero - vale a dire Asia, Africa, America Centrale e Oceania - cui sarebbero finalmente aperte le porte, e le risorse, della FIFA World Cup; dall'altra troviamo invece tutto il circus europeo, comprensivo di club, UEFA e personale umano tra allenatori e calciatori che si troverebbero con un calendario da aggiustare - un mese e mezzo di torneo con 1.500 atleti coinvolti non può essere ignorato - e quindi con una finestra ancora più breve e fitta di impegni. Il contesto non è nuovo. Le federazioni europee sono intrappolate da tempo in un circolo vizioso in cui sembra aumentare tutto: i ricavi, i costi, gli impegni, i chilometri. E di pari passo crescono l’insoddisfazione degli addetti ai lavori e del pubblico così come la distanza da un punto di equilibrio che sia sostenibile e accettabile per tutti. L’intero modello del business calcistico è sotto pressione, intorno alla solita spaccatura: una parte che spinge per la continua espansione, obbligata dagli oneri di gestione, in continuo aumento, a cercare nuovi profitti; e l’altra in crescente difficoltà nel garantire gli standard qualitativi del gioco, e che fuori dal campo presenta richieste economiche sempre più onerose.
Karl-Heinz Rummenigge, storica colonna portante del Bayern Monaco, ha parlato in un'intervista al Corriere della Sera di questo fenomeno, sostenendo che secondo lui i giocatori stessi e gli entourage che li circondano si siano "messi in trappola" da soli. Chiedendo salari sempre più alti, e forzando club e federazioni a cercare nuovi sbocchi di mercato. "Quei soldi in un modo o nell’altro devono essere guadagnati, ed è per questo che si fanno più partite, richieste dal mercato televisivo. Ma se ogni anno i giocatori vogliono di più e gli agenti chiedono soldi anche per fare due chiacchiere, quale società è ancora in grado di guadagnare?". Il punto di frizione è ovviamente questo, e i possibili attriti per l’allargamento della Coppa del Mondo 2030 potrebbero trascinare finalmente tutte le parti coinvolte intorno a un tavolo, alla ricerca di un necessario compromesso, pacifico e condiviso. Perché continuare a mungere l’animale senza curarsi della sua fame insaziabile e dei problemi che ne derivano (infortuni, saturazione del mercato, perdita di appeal, il rischio di un lockout) non è un’opzione. Non a lungo termine, almeno.





















































