Come funziona la stadium diplomacy della Cina in Africa Un vademecum di soft power in vista della Coppa d'Africa 2027
Nairobi, Kenya, 12 agosto 1987: al Moi International Sports Centre di Kasarani, stadio nuovo di zecca regalato dalla Cina, è in programma l’atto conclusivo degli All-Africa Games. Nella finale calcistica ci sono l’Egitto, che alzerà al cielo il trofeo grazie alla vittoria per 1-0, e la nazionale di casa, il Kenya, in una delle prime grandi vetrine internazionali della stadium diplomacy di Pechino. «Dopo la partita ci hanno detto che i cinesi che avevano costruito lo stadio hanno passato due ore girando nervosamente intorno alla struttura», racconta James Nandwa, ex giocatore delle Harambee Stars in campo quel giorno. «Temevano che l'impianto non reggesse un gol del Kenya e l’esultanza delle 100.000 persone sugli spalti e forse è un bene che non sia successo».
Quasi quarant’anni più tardi, e dopo altri due finanziamenti cinesi e un profondo restauro della struttura, lo stesso stadio di Kasarani è nuovamente il centro del continente. Ospiterà a fine agosto la finale dell’African Nations Championship 2024 (CHAN), in corso quest’estate dopo una serie di rinvii, e tra un paio d’anni accoglierà la Coppa d’Africa 2027 (AFCON), assegnata agli stessi tre co-host: Kenya, Uganda e Tanzania. "Pamoja", cioè insieme in lingua swahili, e legati da un filo quantomai rosso: la regia infrastrutturale cinese.
Made in China
La federcalcio continentale (CAF) sta accendendo così, per la prima volta nella storia, i riflettori su queste tre nazioni dell’East Africa; e con esse, sulla capillare penetrazione di Pechino sulle sponde del Lago Vittoria, ben documentata dalle due manifestazioni CAF e dai cantieri che le circondano. Quasi ogni tribuna che stiamo vedendo sullo sfondo del CHAN 2024, e ancora di più che vedremo con l’AFCON 2027, porta infatti la firma cinese: dal già citato Moi International Sports Centre di Nairobi, per il cui restauro sono stati stanziati recentemente altri 13 milioni di dollari, agli stadi di Kampala in Uganda, Dar es Salaam e Zanzibar in Tanzania.
Il Mandela National Stadium di Namboole, Kampala, è stato eretto nel 1997 con un grant PRC da 36 milioni di dollari, e poi ammodernato quindici anni fa con un'altra concessione governativa di Pechino per 3 milioni; l’ultimo intervento, completato nel 2024, è stato invece finanziato da fondi domestici e portato a termine dalla brigata ingegneri dell’esercito ugandese, la UPDF Engineering Brigade. L’Amaan Stadium di Zanzibar testimonia radici ancora più profonde, in quanto primo progetto-stadio cinese in Africa, costruito nel 1970 e rimesso a nuovo nel 2010. Chiude il cerchio il Benjamin Mkapa Stadium di Dar es Salaam, costato 56 milioni di dollari e inaugurato nel 2007 sotto la supervisione del Beijing Construction Engineering Group.
Tra le sedi ufficiali del CHAN 2024, insomma, quattro su cinque - resta fuori soltanto il Nyayo National Stadium, Kenya - condividono un background orientale. Ed è solo la punta dell’iceberg di una presenza molto più profonda: in campo sportivo, con altri impianti in dirittura d’arrivo per l’AFCON 2027, ma anche nell’ambito dell’edilizia e delle infrastrutture civili, e dunque nello schema della Belt & Road Initiative lanciata ufficialmente da Pechino nel 2013.
Verso il 2027
Il CHAN sta servendo dunque come test generale, ma il vero banco di prova è nei cantieri che devono chiudere entro il 2026. A Nairobi, la Talanta Sports City corre a velocità spedita: 60.000 posti, appalto alla China Road & Bridge Corp, consegna annunciata per fine anno, e status di main venue per cerimonie e gare di punta. È il progetto-manifesto della nuova stagione di stadium diplomacy nell’East Africa, ed è quello che più di ogni altro dirà se il cronoprogramma è allineato alle tempistiche richieste dalla CAF. In Tanzania la bilancia pende invece su Arusha, nuovo impianto da 60.000 posti con un budget attorno ai 120 milioni di dollari, mentre a Dodoma si lavora su uno stadio più piccolo per completare il mosaico. In Uganda infine ci sono due progetti work in progress, a Lira e Hoima, con regia egiziana e turca.
Sul perimetro tecnico decide la CAF: per l’AFCON servono tre stadi per ogni host, con un’arena da almeno 40.000 posti e due da 20.000, oltre a media center, compound tv, postazioni VAR e campi d’allenamento per ciascuna nazionale. È anche una questione di geografia: gli impianti devono gravitare intorno a un aeroporto internazionale e a un’adeguata ricettività alberghiera, motivo per cui il governo ugandese - presieduto da Yoweri Museveni dal 1986 - ha scelto Hoima, e pochi chilometri dal nuovo Kabaale International Airport. Tutto questo riguarda il calcio e dintorni, ma come anticipato il discorso non si esaurisce qui, anzi. Gli stadi ospitano le partite e garantiscono le cartoline più appariscenti, ma sono le infrastrutture a rendere possibili le candidature per tornei di questa portata.
L’ombra di Pechino
A Entebbe, l’upgrade dell’aeroporto internazionale ugandese è stato finanziato con prestiti Exim Bank of China e realizzato dalla CCCC (China Communications Construction Company). Delegazioni AFCON e addetti ai lavori atterreranno qui, prima di muovere verso la capitale percorrendo la Kampala-Entebbe Expressway, anch’essa resa possibile da un finanziamento Exim. E poi ci sono dighe e centrali idroelettriche a Karuma e Isimba, nuove strutture per telecomunicazioni come l'e-Government Infrastructure e il programma di videosorveglianza Huawei “Safe City”, e ancora ospedali come il China-Uganda Friendship Hospital a Kampala oltre che le zone industriali Liao Shen Industrial Park e Sino-Uganda Mbale Industrial Park. Un universo di opere made in China che presto potrebbe includere anche il nuovo oleodotto EACOP, una pipeline che collega Uganda e Tanzania.
Allo stesso modo in Kenya la ferrovia Mombasa-Nairobi, firmata China Road and Bridge Corp, è la spina dorsale dei trasporti interni tra area costiera ed entroterra; cui si somma la lunga lista di opere stradali come la Nairobi Expressway e Thika Superhighway, portuali come a Lamu e Mombasa, energetiche come la Garissa Solar, sanitarie (Kenyatta Hospital, Mama Lucy Kibaki) e digitali (Konza Data Center). E anche più a sud, oltre il confine tanzanese, l’ombra di Pechino si vede un po’ ovunque: Dar es Salaam ha avviato l’upgrade del porto con appalti cinesi; la storica TAZARA tra Tanzania e Zambia è in rilancio con una concessione trentennale e investimenti CCECC (China Civil Engineering Construction Corp); il gasdotto Mtwara–Dar (finanza Exim, imprese cinesi) alimenta la fascia costiera; a Zanzibar è entrato in servizio il nuovo Terminal 3 dell’aeroporto, finanziato e costruito da imprese pechinesi; e la backbone digitale nazionale continua a espandersi con contratti Huawei. Tantissime opere e chissà quante ancora in arrivo, sulla stessa rotta che collega Cina, Africa e altre regioni del mondo: la Belt and Road Initiative (BRI).
La nuova via della seta
L'industria cinese è arrivata nel continente molto prima dell’occidente, e con garanzie molto più solide. Oggi, dopo decenni di investimenti, l’egemonia è pressoché inavvicinabile. Tra il 2000 e il 2023 Pechino ha firmato in Africa oltre 1.300 operazioni per più di 180 miliardi di dollari; di questi, nel solo ultimo decennio Kenya, Uganda e Tanzania hanno assorbito oltre 7 miliardi tra ferrovie, porti, energia, aeroporti e, in quota minore, stadi. La cornice è la nuova via della seta: non beneficenza, ma una strategia che compra crediti, garantisce asset diplomatici e politici nei fori internazionali, accesso a risorse, sbocchi export e una fonte inesauribile di commesse per l’industria statale.
In questo panorama gli stadi pesano relativamente poco nei conti, ma moltissimo nell’immaginario collettivo - motivo per cui nei decenni si è plasmata l’eloquente espressione di stadium diplomacy. La logica per i preparativi dei grandi eventi sportivi, d’altronde, è semplice: comanda chi sa consegnare in tempo e con costi accessibili. Uno schema che Pechino ha mostrato ormai di saper accogliere, sostenendo programmi come Kenya Vision 2030, Uganda Vision 2040 e Tanzania Development Vision 2050, che usano i tornei come acceleratori per lo sviluppo.
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Si tratta di una dinamica globale e di vecchia data, come ci ricorda qualche esempio in altre aree del mondo: l’Ebimpé di Abidjan in Costa d’Avorio per l'AFCON 2023, i gemelli di Bata e Malabo in Guinea per AFCON 2012 e 2015, l’Estadio Nacional di San José in Costa Rica, il Morodok Techo di Phnom Penh in Cambogia, e la lista potrebbe andare avanti. In Africa, però, la stadium diplomacy è più nitida che altrove perché si innesta su bisogni infrastrutturali urgenti e su governi che, oltre a ritorni di immagine e consenso, cercano partner rapidi e non troppo attenti a standard democratici e sociali.
Le letture di questi processi sono plurali. ONG e osservatori per i diritti umani chiedono trasparenza, manutenzioni sostenibili e garanzie sociali all’interno dei cantieri; le capitali occidentali accusano Pechino di aver creato un sistema di dipendenza e di attuare politiche neo-colonialiste, ma raramente offrono valide alternative; Pechino dal canto suo offre pacchetti integrati (progetto, finanza e cantiere) e incassa silenziosamente il proprio ritorno politico, diplomatico e commerciale. Nel caso di Kenya, Uganda e Tanzania, se le consegne reggeranno il calendario, l’AFCON 2027 offrirà la cartolina che la Cina desidera: infrastrutture visibili e funzionanti, utili ben oltre il torneo. Ed è qui che le manifestazioni CAF smettono di essere solo sport e diventano un vademecum di soft power.