Tutto è iniziato con una box Nike Viaggio a Portland insieme a Francesco Totti, alla scoperta delle nuove Tiempo e non solo

Uno dei ricordi più vividi della mia infanzia è mio padre che entra in casa con una scatola di scarpe Nike. Era il 2000, forse il 2001: Totti vinceva il suo primo e unico Scudetto con la Roma e Zamorano giocava ancora all’Inter. Ora, lo so: vi starete domandando perché abbia parlato di Zamorano. Anche lui c’entra eccome con questa storia.

Mio fratello, interista sfegatato, provava in ogni modo a convertirmi ai colori nerazzurri. Uno dei suoi tentativi fu regalarmi un paio di Lotto indossate da Zamorano, complete di figurine all’interno. Un regalo che, col senno di poi, ho apprezzato, ma che sicuramente non era ciò che un bambino di sette anni desiderava davvero. Quello che volevo con tutto me stesso era ciò che, un giorno, mio padre portò a casa dopo il lavoro: le Total 90. Nere e grigie, viste in TV mi sembravano scarpe magiche, capaci da sole di migliorare le mie prestazioni e farmi segnare più gol di quanti potessi immaginare.

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Questo piccolo excursus serve a farvi capire quanto io sia sempre stato legato a Nike e quanto, da bambino, questo legame abbia influenzato il mio modo di giocare e ciò che volevo indossare dentro e fuori dal campo. Quello swoosh, per me, rappresentava un sogno: un mezzo per rincorrere i miei obiettivi e provarci sempre. Quando la scuola calcio, academy della Juventus, iniziò a fornirmi tutti i kit Nike, visto che i bianconeri dal 2003 al 2014 erano sponsorizzati dallo Swoosh, il cerchio si chiuse definitivamente. Niente più Lotto Stadio: indossavo Nike dalla testa ai piedi e, per me, non poteva esserci niente di più sensato. Mi bastava poco per essere felice, ne sono consapevole. Negli anni, questa ossessione è cresciuta: collezionavo oggetti, poster, guardavo e riguardavo ogni spot, compravo scarpini di ogni tipo. Quel logo che, nella mente della sua creatrice Carolyn Davidson, rappresenta movimento, velocità ed energia, per me è sempre stato una necessità.

Per questo motivo, quando a inizio novembre mi è stato chiesto se volessi far parte di un viaggio a Portland per visitare il Philip H. Knight Campus, la mia felicità ha raggiunto l’apice. Un modo perfetto per chiudere l’anno e consacrare quel ricordo di mio padre che entra in silenzio, con una scatola di scarpe tra le mani. Vedere il luogo dove tutto è iniziato per una delle aziende che più amo, non solo per i prodotti ma per ciò che rappresenta, è stato come realizzare un sogno. Entrare nella Prefontaine Hall, passeggiare nella Bowerman Street, vedere la prima waffle shoe con cui Philip Knight ha dato vita a Nike: qualcosa di irripetibile. Ripercorrere la storia raccontata in "Shoe Dog", che ho letto più volte, è stato come dare forma concreta a un sogno, esattamente come negli spot nati in quegli edifici dove ogni giorno lavorano 12 mila persone.

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Il campus Nike, al primo impatto, sembra un posto creato per chi vuole sognare davvero. Un luogo dove le idee prendono forma e dove ogni dipendente può lavorare, allenarsi e prendersi il proprio tempo in una struttura che migliora continuamente. Non abbiamo potuto vedere ogni angolo del campus – anche se avrei voluto – ma abbiamo visitato aree chiuse al pubblico, giocato al Ronaldo Field, esplorato le stanze del Serena Williams Building e partecipato a una riunione in una delle splendide sale del LeBron James Building. E non è finita qui: ancora una volta, il cerchio si è chiuso. Abbiamo avuto il privilegio di pranzare, giocare e conoscere da vicino uno dei numeri 10 più iconici del nostro calcio: Francesco Totti. Con lui abbiamo provato le nuove Tiempo, di cui vi parlerò tra poco, e visto in anteprima un’altra delle mie ossessioni: le maglie da portiere.

Il Mondiale 2026 farà storia con le divise più belle di sempre. Merito di Nike, che per il torneo tra Stati Uniti, Messico e Canada ha deciso di osare come mai prima d’ora. La conferma arriva dalla collezione Hollywood Keepers: colori accesi, fantasie psichedeliche, forme geometriche, elementi futuristici che reinterpretano codici estetici classici e che – finalmente – fanno ben sperare per il grande ritorno delle maglie da portiere. Ma oltre alla Hollywood Keepers, Nike ha presentato ufficialmente anche la nuova versione delle Tiempo Maestro, un simbolo degli scarpini da calcio, tornato in una veste completamente rivisitata per rispondere alle esigenze del calcio moderno. Restyling profondo, anima intatta, design più aggressivo e una nuova colorazione. Due novità che abbiamo potuto toccare con mano in esclusiva, proprio a Portland.

Nel Court 21 del Serena Williams Building ho avuto anche l’ebrezza di provare Aero Fit, la nuova tecnologia testata negli ultimi mesi in tutto il mondo. Immaginate un laboratorio pieno di strumenti impossibili da decifrare a prima vista. Immaginate di ritrovarvi tra telecamere termiche e poi dentro una sorta di portale che vi proietta da temperature altissime a freddo estremo. Una sensazione stranissima, difficile da spiegare: come entrare nel futuro restando immobili, percependo che tutto intorno a voi sta cambiando. E cambierà davvero il modo di stare in campo: massima freschezza quando serve, calore trattenuto quando necessario. Il lavoro di Portland non si ferma ai 90 minuti: Nike ha pensato anche al post-match, e lo abbiamo provato. Ai piedi ci hanno messo le Nike Mind: una suola composta da micro-sfere che stimolano i recettori sensoriali sotto il piede, sfruttando la connessione mente-corpo. È qualcosa di impossibile da spiegare in poche righe, quasi fantascienza, ma una volta provate capisci che al Mind Science Department hanno davvero aperto la strada a una nuova categoria di prodotti per recuperare e performare meglio.

Un sogno di 48 ore che mi ha permesso di tornare bambino e rivivere l’emozione di mio padre che torna a casa con quelle Total 90. E che mi ha fatto apprezzare ancora di più il tempo passato a Portland insieme al team di Nike.