Il Crystal Palace ha costretto la UEFA a cambiare il regolamento Le multiproprietà sono intorno a noi, in mezzo a noi

Nei mesi scorsi il Crystal Palace si è visto revocare dalla UEFA il posto in Europa League per la stagione 2025/26, guadagnato con la vittoria della FA Cup. La squadra è stata retrocessa nella terza competizione continentale, la Conference League. Il motivo? Un conflitto di interessi non affrontato e risolto dal club entro le tempistiche stabilite dalle norme in materia di multi-club ownership (MCO). Si tratta dell’asse con l’Olympique Lyonnais dato che la proprietà della squadra francese era riconducibile a John Textor, imprenditore americano e fondatore di Eagle Football Holdings, che negli ultimi anni ha acquisito quote anche di Botafogo (Brasile) e RWD Molenbeek (Belgio) oltre che del Crystal Palace.

Dopo un’estate di polemiche dai toni esasperati, ora il caso Crystal Palace, che il presidente Steve Parish definisce "una delle più grandi ingiustizie mai accadute nel calcio europeo",  si è trasferito dai titoli di giornale all’agenda UEFA, trasformandosi in uno scottante tema politico. Le multi-club ownership sono infatti un fenomeno sempre più comune, in Europa e non solo, e il Palace non è stata l’unica vittima recente di tali normative; ci sono anche Drogheda United (Irlanda) e Dunajská Streda (Slovacchia), che per questioni simili hanno dovuto cedere il passo in Conference League a Silkeborg IF (Danimarca) ed ETO Gyor (Ungheria). Un moltiplicarsi di campanelli d’allarme che a Nyon non può essere ignorato.

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Secondo quanto riportato recentemente da The Guardian, il dibattito ha gettato le basi per una svolta normativa sui tempi e sugli strumenti con cui vengono gestite situazioni del genere. "O si accettano le multiproprietà", ha detto - con valide argomentazioni - Steve Parish, presidente del Crystal Palace, "oppure le si vieta del tutto. Ma la UEFA è a un bivio su cui deve riflettere, e dopo cui deve trovare una via d’uscita, perché questa situazione non ha senso."

Crystal Palace vs UEFA

La sequenza ha avuto origine lo scorso maggio, con la sorprendente vittoria del Palace in FA Cup per il suo primo, storico titolo nazionale. E con la conseguente qualificazione per l’Europa League 2025/26, che per i londinesi rappresentava un’altra prima volta. Nel frattempo però anche il Lione, ai tempi sotto il controllo di Eagle Football, otteneva lo stesso pass europeo, creando così i presupposti per l’intervento della CFCB, l’organo USFA di controllo finanziario dei club. Le regole federali vietano infatti che due realtà sotto "influenza decisiva" della stessa figura possano disputare competizioni in comune, salvo la concessione dallo stesso ente di un blind trust su uno dei due asset.

La scadenza per segnalare la possibile sovrapposizione e dunque per ottenere il via libera della CFCB, di solito rivedendo l’assetto societario di uno dei due club, è fissata attualmente all’1 marzo. Ed ecco il problema, con il club britannico che ha mancato la deadline anche comprensibilmente dato che a febbraio in pochi, con la FA Cup ancora ai sedicesimi di finale, avrebbero potuto prevedere la vittoria del torneo. E così una volta ottenuto il pass, la CFCB ha reagito immediatamente sanzionando il Palace, declassandolo in Conference League e lasciando al Lione lo slot in Europa League. Le gerarchie UEFA rendono prioritaria in tal senso la posizione in campionato rispetto al titolo nella coppa nazionale, e così i tifosi di Selhurst Park hanno dovuto metabolizzare il triste epilogo di tutto ciò, confermato anche dopo il ricorso al CAS di Losanna.

Il club ha impugnato la decisione ed evidenziato come la propria natura fosse diversa da tante altre MCO, anche prima del riassetto societario estivo. È stato provato che John Textor non esercitasse un "controllo determinante" sul club, sulle decisioni sportive soprattutto, e che la sua quota, nel frattempo, era stata rilevata da un nuovo azionista, Woody Johnson. Ma per il CAS tutto ciò non ha avuto rilevanza: conta la fotografia alla data di valutazione, dunque all’1 marzo, senza margine di manovra, né per i club né per la federazione, nei mesi successivi. "Abbiamo dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che John non aveva un’influenza decisiva su nulla che riguardasse il club”, continua Steve Parish, “eppure sono arrivati comunque a questa decisione, che sembra incongrua. La regola cambierà, nessuno vuole continuare ad attenersi a questa incomprensibile follia."

Il punto di svolta

Per come si presenta oggi la norma stride evidentemente con i calendari del calcio europeo e con le logiche delle MCO che, come ripete Parish da mesi, la UEFA ha accolto nel proprio perimetro ormai da tempo, pur con regole piuttosto restrittive. Nel caso specifico del Palace l’asimmetria tra pratica, quindi un sistema sempre più costellato di network del genere, e teoria, ovvero le norme sul conflitti di interessi, ha generato un danno economico stimato in 25 milioni di euro. Cui si aggiunge quello sportivo sul piano meritocratico, a spese del personale umano dentro e intorno il club.

Il Palace ha perso la battaglia, ma ha portato il tema all’attenzione di una vasta audience, e potrebbe aver cambiato il corso di un conflitto ben più profondo. A Nyon si sta ragionando infatti, come svelato da Matt Hughes per il The Guardian, su una nuova doppia scadenza: una timeline che rinnova ai club la richiesta di segnalare entro l’1 marzo eventuali criticità, ma che estende fino a giugno la finestra per risolverle. Un cambio di rotta che permetterebbe ai club di aspettare i verdetti emessi dal campo senza sforare le date dei sorteggi dei preliminari europei. Una correzione quindi che non assolve i ritardi, chi non segnala entro marzo resta in violazione, ma che apre alla gestione ex-post dei conflitti quando la violazione diventa concreta.

A questa misura si potrebbero unire poi alcune rivisitazioni sul significato di "influenza decisiva", che nel caso del Palace ha rappresentato un punto nevralgico della questione. Il tema si ripresenterà ed è inevitabile in un contesto ormai densamente popolato da network multiproprietari. Entità sempre più variegate e complesse, e non per forza centrali nella quotidianità sportiva del club.

Multiproprietà in Europa

Le multi-club ownership non sono più un’eccezione nel panorama del vecchio continente. Secondo un report finanziario UEFA del 2024 le squadre interessate, oltre 250, sono più che raddoppiate nel giro di cinque anni, e il fenomeno è destinato ad allargarsi ulteriormente. Nel blocco dei mega-network spicca il City Football Group, che fa riferimento al Manchester City e unisce una costellazione europea tra Spagna (Girona), Italia (Palermo), Belgio (Lommel) e Francia (Troyes); ma non solo, anche Stati Uniti (New York), Giappone (Yokohama), Australia (Melbourne) e Uruguay (Montevideo), tra le altre. Si tratta di un progetto che integra scouting, sviluppo e ricollocazione dei talenti su più leghe, con l’asse Manchester-Girona che ha rappresentato un importante snodo regolatorio nel 2024, quando entrambi i club sono stati ammessi alle competizioni UEFA a fronte del trasferimento delle quote ad azionisti esterni.

L’altro maxi-ecosistema è Red Bull, con al centro Salisburgo e Lipsia e intorno alcuni altri satelliti, continentali e non. Il gruppo nel 2017 ha trovato un’intesa con gli organi finanziari UEFA per la coesistenza dei club, sempre grazie a revisioni della governance e garanzie sull’influenza del gruppo. Ci sono tutti i casi meno espansi, ognuno con le proprie logiche e dinamiche: INEOS (Manchester United e Nizza) RedBird (Milan e Tolosa), V Sports (Aston Villa e Vitoria de Guimarães), BlueCo (Chelsea e Strasburgo), 777 Partners (passato anche dall’Italia con il Genoa), Friedkin (Roma, Cannes, Everton), Pozzo (Udinese e Watford). E, appunto, la Eagle Football di John Textor da cui si è partiti.

In Italia, per chiudere il cerchio, la materia è regolata l’art. 16-bis NOIF, che vieta il controllo di più club professionistici e punta ad azzerare le multiproprietà domestiche entro il 2028. Entro tale deadline i pochi poli multiproprietari rimasti, a tutela dell'integrità del movimento, dovranno sciogliersi definitivamente. Il caso studio è Claudio Lotito, che è stato numero uno contemporaneamente di Lazio e Salernitana. Alla promozione in Serie A dei campani, nel 2021, la FIGC concesse un trust indipendente, a patto che il club venisse ceduto entro sei mesi, pena l’esclusione. Una declinazione del blind trust usato anche in ambito UEFA, e uno scenario che potrebbe ripetersi nel caso in cui Napoli e Bari, entrambe riconducibili ad Aurelio De Laurentiis,dovessero ritrovarsi nella stessa categoria. Gli ultimi due casi di un fenomeno che nella sfera interna sta sparendo, giustamente, in Italia come all’estero. Ma che in ambito internazionale deve ancora trovare una dimensione equa, pacifica e condivisa.