Il Mondiale 2026 cambia la geografia del calcio Capo Verde, Curaçao e tutte le favole sulla strada per la FIFA World Cup

Negli ultimi giorni la Coppa del Mondo 2026 di calcio ha preso forma in modo sempre più concreto. L’edizione dell’estate prossima, che verrà co-ospitata da Stati Uniti, Canada e Messico, e in cui debutterà il nuovo formato XXL varato dalla FIFA, ha ora un quadro quasi completo, con 42 nazionali qualificate e gli ultimi sei slot da assegnare negli spareggi di marzo. E se l’Italia è invischiata ancora una volta nella bagarre dei playoff, in cui dovrà affrontare l'Irlanda del Nord in semifinale ed una tra Bosnia e Galles nell'eventuale finale, ad altre latitudini hanno strappato il pass squadre con molta meno tradizione: in alcuni casi per la loro prima storica volta, come ad esempio Curaçao e Capo Verde; in altri dopo decenni di assenza, come nel caso di Haiti. Sì, sono nomi che fa strano persino sentire associati ad una FIFA World Cup, e che confermano come la geografia e i criteri d’accesso all’evento siano stati rivoluzionati.

In ambito UEFA le due volate più emozionanti hanno premiato Scozia e Irlanda, che hanno guadagnato all'ultimo respiro (e oltre) un posto, rispettivamente, alla fase finale del torneo e ai suoi spareggi. I primi grazie a un successo contro la Danimarca ispirato dal napoletano Scott McTominay, autore di un gol memorabile in rovesciata; i secondi dopo le due vittorie contro Portogallo e Ungheria, trascinati dal nuovo eroe nazionale Troy Parrott. In area CAF (Africa) l’ultima sorpresa è stata confezionata invece dalla Repubblica Democratica del Congo, che ha battuto il Camerun prima e la Nigeria poi, tra riti voodoo in panchina e un sogno che ora passa dai playoff messicani di marzo. A queste sfide dentro-o-fuori si sono iscritte dalla zona CONCACAF (America Centrale e Caraibi) anche Suriname e Giamaica, che inseguono la loro prima e seconda volta di sempre, mentre dal perimetro AFC (Asia) si segnalano due matricole prossime al debutto mondiale: Uzbekistan e Giordania. Ma le imprese più eccezionali sono state firmate da due nazionali che hanno scritto nuovi record impensabili per dimensioni geografiche e demografiche: Capo Verde e Curaçao.

Capo Verde: più di un’ex colonia portoghese

Per capire l’enormità di ciò che ha fatto Capo Verde, basta guardare una cartina e prendere in mano qualche numero. Si tratta di un arcipelago di dieci piccole isole nel mezzo dell’Atlantico, con poco più di mezzo milione di abitanti e una vasta diaspora sparsa tra Europa, Africa e America. È il secondo Paese più piccolo di sempre ad accedere a un Mondiale, dietro l’Islanda 2018 - anche se tale primato è rimasto in piedi giusto per qualche settimana, fino all’impresa ancora più estrema di Curaçao. La qualificazione di Capo Verde è stata sigillata grazie alla vittoria decisiva contro eSwatini, ma è maturata nelle partite precedenti dei gironi. In modo cinematografico, all’Estádio Nacional di Praia, cornice brulla immersa tra le colline vulcaniche, con il 2% circa dell’intera popolazione nazionale sugli spalti (15.000 spettatori) per assistere alla storia dei tiburões azules, gli squali azzurri. Lì si è giocata la sfida decisiva, finita 1-0 contro il Camerun, la nazionale africana con più partecipazioni alla Coppa del Mondo. Con la firma di Rocha Livramento, attaccante ex Verona e oggi al Casa Pia, nel campionato portoghese.

Capo Verde ha sempre avuto un rapporto speculare con l’ex madrepatria, per ragioni storiche, culturali e linguistiche, ma anche calcistiche. Partendo da lontano, con le origini capoverdiane di Eusébio, leggenda del calcio lusitano, e fino alla nuova era delle naturalizzazioni, che hanno contribuito alla crescita del movimento. Oggi, però, la nazionale racconta un’altra storia, anche attraverso le maglie da gara realizzate da Tempo Sport, che portano in campo l’identità e la geografia del piccolo arcipelago: il blu della bandiera, le dieci stelle-isole ripetute su tutte le divise, un Paese che disegna la propria identità post-coloniale, oltre il verde e il rosso lusitani. Nel 2024 Capo Verde ha compiuto cinquant’anni di indipendenza, e il Mondiale di calcio regalato ai propri cittadini, anche a quelli che vivono lontano, è il modo più potente per trasformare un nome nato da un equivoco geografico, dato che gli esploratori portoghesi pensavano di essere sbarcati a Cap-Vert in Senegal, in una presenza riconoscibile nell’immaginario calcistico globale. Ed è il coronamento di una crescita calcistica anticipata dai quarti di finale in Coppa d’Africa 2013 e 2023, peraltro a poco più di dodici mesi di distanza dalla prima medaglia olimpica conquistata da un atleta capoverdiano (David de Pina, Parigi 2024).

Curaçao: il miracolo caraibico

Nel frattempo, quando ancora ci stavamo finendo di stupire per l’impresa di Capo Verde, un altro puntino sulla mappa ha riscritto di nuovo i record. Curaçao, un’isola a 60 chilometri dal Venezuela, estesa appena 444 chilometri quadrati (meno del 2% di Sicilia e Sardegna, per intenderci) e abitata da meno di 160.000 anime (più o meno come Ravenna, 24esimo comune italiano per residenti); un Paese costitutivo del Regno dei Paesi Bassi, ma che ha un proprio governo e parlamento, oltre che una lingua creola al fianco dell’istituzionale olandese. E se fino a qualche giorno fa per molti era soprattutto un liquore e un luogo da cartoline caraibiche, oggi è la nazione più piccola e meno popolosa di sempre a qualificarsi alla fase finale di un Mondiale.

Il percorso verso la World Cup 2026 è stato netto: sette vittorie e tre pareggi nel girone, 24 punti che hanno regalato il primo posto davanti alla Giamaica. È il punto più luminoso di un percorso partito da lontano, che ha visto la selezione salire dal 150esimo all’80esimo posto nel ranking FIFA in un decennio. Un traguardo impensabile fino a pochi anni fa, conseguito anche sotto la direzione di Dick Advocaat, un allenatore di 78 anni giunto a Willemstad all'inizio del 2024, avendo precedentemente guidato diverse nazionali tra cui Paesi Bassi, Russia, Iraq, Emirati e Corea del Sud. Il suo ruolo è stato di connettore prima ancora che di commissario tecnico, avendo convinto una buona lista di giocatori cresciuti nei Paesi Bassi, ma eleggibili per Curaçao, a scegliere l’isola. E così una nazionale che pesca da un bacino di popolazione minuscolo si è ritrovata con un nucleo abituato al calcio d’élite, con legami che arrivano fino alla Serie A (Livano Comenencia, cresciuto nella Juve Next Gen).

È un risultato "che arriva a compimento di un progetto cominciato nel 2004 e in cui non abbiamo mai smesso di credere", dice Gilbert Martina, numero uno della federcalcio locale. "Dopo 21 anni, ci siamo riusciti. Ed è una sensazione bellissima, un regalo per tutti i curacaoesi in ogni angolo del mondo. Siamo un Paese di piccole dimensioni, ma di persone grandi nell'anima e nel cuore". Curaçao non sarà un’eccezione isolata, ma una delle tre rappresentanti caraibiche al Mondiale: la punta più estrema di un movimento che ha sfruttato l’allargamento dei posti FIFA per aprirsi nuovi spiragli. Storie che è impossibile non trovare affascinanti finché le guardiamo da lontano, come favole esotiche, ma è quando le si mette in relazione con le grandi escluse, soprattutto europee che la narrazione si incrina, facendo tornare spesso a galla l’eterna accusa di Mondiale snaturato.

La nuova geografia del calcio mondiale

Se dicendo che "il nostro Mondiale l’abbiamo già vinto" Gilbert Martina ha fotografato la portata storica della qualificazione di Curaçao, e più in generale i sogni che stanno vivendo diverse selezioni, nel vecchio continente c’è invece chi storce il naso. Ad esempio Riccardo Trevisani ha detto su Cronache di Spogliatoio che "il formato dei Mondiali è sbagliato" e addirittura che "il regolamento delle qualificazioni fa schifo". Parole figlie - per le tempistiche se non altro - della mancata qualificazione diretta degli azzurri, e soprattutto di una presenza delle selezioni europee che la federcalcio mondiale ha scelto di ridimensionare rispetto alle precedenti abitudini. Una svolta prima di tutto commerciale e politica, certo, ma in ogni caso inclusiva, che ha spalancato le porte a federazioni finora sistematicamente ai margini del torneo più importante del panorama calcistico globale. Una serie di piccole grandi imprese sportive che renderanno la FIFA World Cup 2026 la più eterogenea e la meno euro-centrica di sempre, e che in queste settimane hanno consegnato al pubblico storie che vanno ben oltre lo sport, e che raccontano identità lontane e spesso poco conosciute. Tutti buoni motivi per accogliere con curiosità ed entusiasmo le rivincite di chi vive da sempre ai confini dell’impero.

Da un punto di vista puramente tecnico, si può dire, i prossimi Campionati europei (Regno Unito e Irlanda 2028) saranno di livello più alto rispetto ai Mondiali in arrivo. Può sembrare strano e controintuitivo, ma è solo una questione di prospettive. Chi ha detto infatti che la FIFA debba organizzare con il Mondiale il torneo di livello più alto, e non quello più vasto e rappresentativo? Come anche in altri contesti, calcistici e non, ogni attacco all’euro-centrismo viene percepito come un modo per snaturare il prodotto, ma è un punto limitato di osservazione, con cui non ignora una traiettoria che accomuna tanti tornei internazionali. Il fondamento dell’allargamento, e cioè il colonialismo sportivo e il perenne inseguimento dei ricavi, potrà appassionare il giusto, ed è normale. Così come le recenti scelte sulle sedi ospitanti, su cui non serve aggiungere commenti a una lista già piuttosto eloquente: il 2018 alla Russia di Putin, l’anno prossimo agli Stati Uniti di Trump (inquilino della Casa Bianca già ai tempi dell’assegnazione), le concessioni ai petro-stati del Golfo Persico con Qatar 2022 e Arabia Saudita 2034. Ma il discorso sull'allargamento dei confini FIFA e sul decentramento del calcio europeo ha connotati diversi.

Il formato espanso e l’inclusione di più nazionali delle aree CAF, CONCACAF e AFC renderanno il Mondiale 2026 l’edizione più variegata di sempre, nonostante il delicato contesto politico, il patrocinio della coppia Infantino-Trump, e chi difende a oltranza il privilegio delle nazionali UEFA. E sarà bello e unico proprio per questo, oltre che più giusto, inclusivo e democratico. D’altronde viviamo in un momento storico in cui c’è estremo bisogno di porte aperte, barriere abbattute, culture lontane che si avvicinano, tradizioni che si evolvono e se in ambito FIFA il costo è l'esclusione dal Mondiale di una manciata di big del vecchio continente, e magari qualche sfida più che mai sbilanciata nei gironi, si tratta di un prezzo assolutamente accettabile.