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I Los Angeles Lakers sono stati venduti per 10 miliardi di dollari

Possedere una franchigia NBA è un privilegio per pochi

I Los Angeles Lakers sono stati venduti per 10 miliardi di dollari Possedere una franchigia NBA è un privilegio per pochi

10 miliardi di dollari. Circa 8.75 miliardi di euro, al tasso attuale di conversione. È la valutazione fuori dal mondo dei Los Angeles Lakers definita dalla cessione della famiglia Buss a Mark Walter. Si tratta della cifra più alta mai raggiunta per una franchigia sportiva statunitense, che ridefinisce le proporzioni di crescita già astronomiche osservate nell’ultimo decennio di NBA. E lo fa con un affare dall’eco enorme, non solo per le sue dimensioni, che alimentano un trend già esploso con la recente cessione dei Boston Celtics, ma anche perché rappresenta il capolinea di una proprietà con quasi mezzo secolo di storia. La proverbiale fine di un’era.

I nuovi Lakers

La famiglia Buss aveva preso il controllo nel 1979, quando Jerry Buss acquistò la franchigia per 68 milioni di dollari circa, in un pacchetto che includeva anche la franchigia NHL dei Los Angeles Kings, il Forum di Inglewood e diritti immobiliari connessi. Iniziò allora il viaggio di una delle più longeve e vincenti proprietà dello sport americano, e di lì a breve sarebbe arrivato anche Magic Johnson, e con lui una nuova epoca per i Lakers e l’intera NBA.

I gialloviola nell’era Buss hanno portato a casa cinque titoli negli anni dello Showtime e altrettanti nell’era di Shaquille O’Neal, Kobe Bryant e Phil Jackson; fino all’ultimo con LeBron James ed Anthony Davis nella bolla di Orlando nel 2020, e al recente arrivo in città di Luka Doncic. In totale undici banner appesi in 45 anni, e la trasformazione dei Lakers in qualcosa che fuori dal campo va molto oltre il basket. In un brand diventato uno status symbol e un’icona culturale e commerciale, con le celebrità di Hollywood in prima fila alla Crypto.com Arena, il fu Staples Center, e uno stile tutto proprio.

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Secondo Forbes, fino a qualche giorno fa almeno, i Lakers erano la seconda franchigia di maggior valore della lega, con una stima intorno ai 6.5 miliardi di dollari, dietro solo ai Golden State Warriors. La cifra emersa dall’accordo, 10 miliardi, sottolinea però la relativa attendibilità delle stime in quest’ambito. Stando a quanto riportato da ESPN, il passaggio di consegne a Mark Walter è in attesa ora dell’imprimatur ufficiale da parte del commissioner Adam Silver e soci, con un formula dovrebbe prevedere la permanenza dei Buss con una quota di minoranza, poco più del 15%, oltre alla conferma di Jeanie Buss nel ruolo di Governor e altre garanzie di continuità manageriale previste dalle norme NBA.

Nel 2023 e nel 2024 i Lakers hanno registrato ricavi operativi annui superiori ai 500 milioni di dollari, tra i più alti della lega. Oltre 160 provengono da sponsorizzazioni, 120 tra biglietti, abbonamenti e hospitality della Crypto.com Arena, e poi ci sono i vantaggi che derivano dall’essere perennemente tra le prime squadre NBA per vendite globali del merchandising. È questo insieme di indicatori che ha spinto Mark Walter, già azionista dei Lakers dal 2021 con il 27% a esercitare il diritto di prelazione e rilevare la quota di maggioranza. Non certo un nome estraneo al pubblico, trattandosi del proprietario dei Los Angeles Dodgers in MLB dal 2012, coinvolto in altri progetti nel mondo sportivo tra calcio europeo (Chelsea e a breve Udinese), WNBA (Los Angeles Sparks), tennis (Billie Jean King Cup) e Formula 1  con il Team Cadillac.

La cessione dei Boston Celtics

Il recente cambio di proprietà dei Boston Celtics aveva già riportato l’attenzione sul valore delle franchigie NBA, e sulle ricchissime plusvalenze degli owner usciti di scena negli ultimi anni. Inevitabile tornarci dopo l’affare da 6.1 miliardi di dollari con cui la famiglia Grousbeck ha consegnato i Celtics al gruppo acquirente guidato da Bill Chisholm. L’esborso aveva infatti rappresentato un nuovo record nel settore sportivo nordamericano, superando quello precedente dei Washington Commanders in NFL, anche se polverizzato poi dai Lakers. In ogni caso, è un bel punto d’arrivo,  con un +1.600% in tasca, per l’avventura imprenditoriale della famiglia Grousbeck, che nel 2002 aveva acquistato la franchigia per 360 milioni.

L’intenzione di cedere i Celtics era stata anticipata dallo stesso Wyc Grousbeck, a nome di tutti i soci della Boston Basketball Partners L.L.C., tra cui Steve Pagliuca, che avrebbe tentato di aumentare la propria quota. Si era parlato inizialmente di un orizzonte temporale di 12-18 mesi, ma ne sono serviti meno. L’accordo siglato con Bill Chisholm, co-fondatore della private equity californiana Symphony Technology, e i soci Rob Hale, Bruce Beal Jr. e Sixth Street Partners, come riportato da ESPN, è suddiviso in due fasi. Nella prima, fino al 2028, il consorzio rileva il 51% e quindi la governance dei Celtics, mentre Grousbeck rimane CEO; il passaggio di consegna si completerà nel 2028, alle condizioni concordate per la parte restante delle quote.

Come i Lakers anche i Celtics sono tra i brand più globali dell’universo sportivo, fanno parte della ristretta élite NBA in termini finanziari e muovono numeri proibitivi per chiunque o quasi. Ma il fenomeno dell’impennata del valore delle franchigie va oltre L.A. e Boston: è collettiva, e sempre più rapida. Se ne era parlato quando Mat Ishbia aveva comprato i Phoenix Suns nel 2023, per 4 miliardi di dollari: un affare senza precedenti per la lega e soprattutto per Robert Sarver, che nel 2004 aveva investito 402 milioni; oppure quando Michael Jordan ha venduto la sua quota di maggioranza degli Hornets, valutati 3 miliardi circa, o ancora quando i Dallas Mavericks (3.5) passavano alla famiglia Adelson e i Brooklyn Nets (2.4) a Joseph Tsai.

Crescita e proprietà

Tutti questi numeri riflettono un trend inequivocabile. Il valore medio di una franchigia a inizio millennio si aggirava intorno ai 210 milioni di dollari, cifra quasi raddoppiata nel 2010 (380 milioni circa) e poi esplosa: 1.1 miliardi nel 2015, 2.1 miliardi nel 2020, 4.6 miliardi oggi. A trainare tutto ciò è la struttura economica della lega, che nel 2024 ha siglato un contratto da 76 miliardi per i diritti televisivi con ESPN, NBC e Amazon. Un accordo che, sottolinea The Athletic, “ha stabilito la dimensione attuale della lega”, comparabile su scala globale soltanto a quella di Premier League e NFL.

Ovviamente non è solo una questione di broadcasting. L’espansione internazionale del marchio NBA, sempre più capillare in tutti i continenti, ha reso ogni franchigia un appetibile asset globale; oltre naturalmente ad aver decuplicato i ricavi della lega, che sono passati dai 2.5 miliardi annui di fatturato a inizio millennio, ai 12 miliardi attuali. E a tutto ciò vanno sommate le strutture di proprietà come dimostrato dalla nuovissima arena dei Los Angeles Clippers, i nuovi flussi commerciali, tutto l’articolato business che circonda una franchigia NBA. L’insieme delle ownership attuali ci dice molto dell’identità della lega. L’età media delle proprietà è di circa diciassette anni, con picchi come i Reinsdorf presenti a Chicago dal 1985 oppure i Simon a Indianapolis dal 1983. Un ecosistema molto più stabile, insomma, rispetto alla stragrande maggioranza delle leghe sportive. Facendo invece una mappatura dei settori di provenienza, troviamo sei franchigie con owner dal mondo tech tra cui Steve Ballmer dei Clippers e Ryan Smith dei Jazz, altrettante da investitori o fondi di private equity come Josh Harris dei Sixers oppure Tony Ressler degli Hawks, cinque guidate da imprenditori legati al real estate, e tre da media e intrattenimento.

L’NBA degli americani

Come detto, c’è una costante: tutte appartengono a investitori americani con solidi legami industriali o territoriali, inclusi i nuovi Lakers e Celtics. L’unica eccezione internazionale è il già citato Joseph Tsai, fondatore di Alibaba e proprietario dei Nets. Tsai è taiwanese, ma ha passaporto canadese ed è residente negli Stati Uniti da decenni. Gli altri 29 proprietari, invece, sono tutti made in USA, e non è un caso. Se nel mondo del calcio abbiamo visto e stiamo vedendo sempre più spesso nuovi attori internazionali, in NBA questo non accade. Mentre la sua gittata commerciale si sta espandendo a un ritmo impressionante, le franchigie continuano ad essere esclusivamente in mani americane: un apparente paradosso che dice molto della filosofia, della struttura e del modello sportivo statunitense.

Nel 2023 i capitali del Qatar sono confluiti per la prima volta nelle casse della lega, con i Washington Wizards tramite Monumental Sports & Entertainment. Senza però alcuna influenza operativa e nella governance, e con una partecipazione limitata al 5%, in linea con i rigidi paletti imposti dall’NBA. Ogni proprietà dev’essere privata, americana e approvata dal Board of Governors, il direttivo a cui siedono tutte le trenta ownership della lega, e deve detenere almeno il 15% delle quote della franchigia. A partire dal 2023 è stata prevista la possibilità, limitata ad alcuni fondi, di acquisire quote fino al 5%, ma solo in forma passiva. Da un lato c’è la volontà di preservare le redini del gioco, evitando influenze esterne nella gestione sportiva, mediatica e sociale della lega. Dall’altro c’è la percezione che le franchigie dello sport americano debbano rimanere ancorate al mercato interno, per ragioni culturali legate alla coerenza con il modello sportivo e i diritti territoriali delle proprietà, e motivazioni strategiche in senso commerciale, ma anche politico.

Possedere una franchigia NBA, insomma, è un privilegio per pochi. Ad oggi nella prima lega cestistica al mondo non c’è spazio per fondi sovrani mediorientali, tycoon e multi-ownership, con tutti gli annessi pro e contro. “Riteniamo importante che le persone al controllo delle nostre squadre siano amministratori responsabili delle rispettive franchigie”, ha detto Adam Silver. Intanto i casi di Lakers e Celtics hanno alzato proibitivamente l’asticella, confermando che una squadra NBA, oggi più che mai, è un lusso davvero esclusivo. Chi era sul carro da tempo ringrazia.